Penguin Bloom
A tutti e tutte è capitato di andare al cinema carichi di aspettative o pregiudizi nei confronti di un film. Provo sempre a non cercare troppe informazioni su un film prima di vederlo, per non lasciarmi condizionare a priori. A volte, però, i trailer non lasciano nessuno spazio all’immaginazione. È il caso di “Penguin Bloom”, film diretto da Glendyn Ivin con Naomi Watts (che ne è anche la produttrice) e Andrew Lincoln. La storia è quella di una donna, Sam Bloom, che, a causa di un tragico incidente, si ritrova paralizzata, ma che riesce a uscire dal momento di depressione in cui l’incidente l’aveva confinata grazie a un pulcino di gazza ladra, Penguin, salvata e portata a casa da uno dei suoi figli.
Il paragone tra una donna che non potrà più camminare e una gazza che non riesce a volare sarebbe troppo mieloso e stucchevole se solo non fosse tratto da una storia vera. Il fatto che la storia sia vera è ciò che aggiunge qualcosa di interessante a una trama scontata e già perfettamente (e interamente) comprensibile dal trailer. Anche la scelta narrativa risulta alquanto banale: la voce narrante del primogenito dei Bloom che racconta la loro storia e dialoghi in cui i protagonisti sembrano letteralmente spiegare passo passo quello che stanno provando e vivendo – e scelgo di non commentare la madre che trova un video in cui il figlio esprime tutto il senso di colpa che prova nei suoi confronti. Anche la recitazione è molto didascalica e nemmeno la performance di Naomi Watts riesce a emergere particolarmente. Durante tutto il film mi sono invece chiesta come avessero fatto ad addestrare così bene una gazza, tanto da farla apparire così naturale e perfettamente a suo agio in ogni scena (ho poi scoperto che sono state otto le gazze che hanno interpretato Penguin, aiutate anche da un modesto uso del CGI).
Ciò detto, a parte le smorfie che mi sono state causate dalla banalità di alcune scene, ho comunque trovato il film piacevole e sono riuscita in alcuni momenti anche a provare empatia sia con Sam che con la gazza. Alla fine sono riuscita, con mia stessa meraviglia, a sentire il messaggio di rinascita che il film cerca goffamente di trasmettere.
“Deve essere strano avere le ali e non essere capaci di volare” dice Noah, figlio di Sam , riferendosi a Penguine e – ovviamente – implicitamente anche a una mamma che sente di avere un po’ perso.
Tuttavia, lo smarrimento di una donna costretta a fare i conti con la propria tragedia lascia spazio, nella seconda parte del film, a un percorso di accettazione e di nascita di una nuova Sam, che cerca di distruggere la vecchia sé, provando però anche a conservarne alcuni tratti caratteristici, come l’amore per l’acqua e l’oceano, che la porteranno, grazie all’incontro con un’altra donna, Gaye, a trovare una nuova dimensione nel kayak.
Tutto sommato, il film riesce comunque a farti immedesimare nella tragedia di una persona (col sottotesto, neanche troppo velato, che potrebbe tranquillamente succedere anche a te) e a farti gioire per una gazza che riesce a spiccare il volo e una donna che riprende in mano la sua vita. Non so se questo sia sufficiente a giustificarne la banalità, ma so che c’è un alto rischio di chiudere un articolo sulla banalità con una frase banale tipo: “un po’ di banalità ogni tanto fa bene” o “la banalità ci salverà”, quindi lascio alle spettatrici e agli spettatori l’ardua sentenza.