Song for Marion

Song for Marion, United Kingdom, 2012, Paul Andrew Williams (R. e Sc.)

“Eat chips and ice-cream, as much as you want” è una di quelle frasi polisemantiche il cui senso dipende esclusivamente dal contesto. Detta a un bambino alla fine di una prova qualunque è semplicemente il migliore dei premi. Suggerita a un’anziana malata terminale, dopo l’ennesima ricaduta, non può che essere l’inizio della fine. Raggelante e lapidaria, come solo l’humour britannico può essere, in Song for Marion la battuta è pronunciata con una fermezza degna del miglior John Cleese. Arriva quando quasi quasi inizi a credere ai miracoli, segnando la fine di un film e inaugurandone uno che non è che la sua naturale conseguenza. Dramma familiare intriso di sarcasmo, ironia e i consueti buoni sentimenti, il lavoro del quarantenne londinese Paul Andrew Williams – noto in patria per aver scritto, diretto, prodotto e interpretato London to Brighton (2006) – è essenzialmente un saggio sulla mascolinità contemporanea. Elaborazione del lutto a parte, infatti, sono le sfide quotidiane, le mille sconfitte e le poche plateali vittorie con le quali il burbero Arthur (Terence Stamp) ha a che fare dall’inizio alla fine del racconto a costituirne la struttura portante.

Se non proprio noia tutto il resto è prevedibilità.

Dalla difficoltà di dimostrare che, a volte, dietro una grande donna può esserci un grande uomo, al coraggio di chiedere scusa per gli errori di una vita, un po’ tutte le facce della questione sono passate in rassegna, con uno sguardo ora critico ora più che accondiscendente. In coda a una lista di anziani sirs “fuori croccantissimi e dentro morbidissimi”, alle prese con scontri generazionali e famiglie disfunzionali – dai nostalgici uomini maturi interpretati da Bill Nighy (The Girl in the Cafè, Shaun of the Dead e Love Actually, solo per citare i più famosi) al crusty Norman di The Best Exotic Marigold Hotel, passando per il super grumpy Victor Meldrew della deliziosa serie BBC One Foot in the Grave – l’Arthur dell’ex bello e dannato Stamp è quello che gli inglesi definirebbero “dark horse”. Qualcuno, cioè, le cui abilità, piani o sentimenti sono invisibili allo sguardo degli altri solo fino a un’inattesa esplosione finale. Una di quelle che non possono che portare al cambiamento radicale. Una di quelle che, nel film di Williams, arrivano puntuali dieci minuti prima del “The End”, rivoltano il protagonista come un guanto e lo abbandonano al solo epilogo possibile: un meritatissimo riposo del guerriero.

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