Il nastro bianco. Una storia tedesca per bambini
Il folgorante bianco e nero de Il nastro bianco (2009) colpisce dritto l’occhio come una scheggia conficcata nella pupilla: una cura “Ludovico” che non permette allo spettatore di risparmiarsi alcuna nefandezza. In una società in cui tutti gli adulti vengono meno al compito che da sempre l’uomo detiene, ovvero l’educazione delle nuove generazioni, e nascondono dietro una maschera amica il volto dell’orco, come possono crescere i figli di questa Germania contadina alle soglie della Grande Guerra? Sussiste una significativa eccezione nel marasma vischioso del villaggio, ovvero l’amore, unico sentimento incontaminato, fra il giovane insegnante e la balia, che ancora ricordano in cosa consista l’essenza del mondo infantile e non a caso fonderanno altrove una nuova famiglia. Il sottotitolo originale de Il nastro bianco, Eine Deutsche Kindergeschichte (ovvero “Una storia tedesca per bambini”), suona sottilmente crudele e tradisce l’intento profondamente morale dell’opera di Haneke. Il nastro bianco, simbolo di quell’innocenza da cui l’infanzia devia agli occhi degli adulti, è una lettera scarlatta, un marchio d’infamia, un perverso profilattico che separa il bambino dal resto del mondo e lo costringe a fare violentemente fronte comune con i propri simili. Un segno di luce e di purezza, elevate a dogma assoluto: giova rammentare che la svastica trova la sua origine nel mondo antico in quanto propizio simbolo solare. La scelta di girare la pellicola in bianco e nero è dichiaratamente dovuta all’intento di realizzare un familiare “effetto fotografico” e al contempo di provocare un senso di distacco narrativo[1], moti uguali ed opposti del perturbante. Lo stesso Haneke ci offre la chiave di lettura di questa pellicola che ha conquistato la Palma d’Oro al Festival di Cannes: «Innumerevoli film trattano dell’era nazista, ma non del periodo o delle condizioni che l’hanno preceduta, ed ecco perché ho voluto realizzare questa pellicola. Collocata in Germania prima della Prima Guerra Mondiale, questa è la generazione che diverrà adulta nell’era nazista. Ma non è soltanto un film su di una questione tedesca. Tratta delle radici del male, che sia terrorismo politico o religioso. Volevo descrivere quei bambini che nella loro età adulta avrebbero giocato un ruolo in un’epoca fascista, e queste persone trovano la propria origine nel Protestantesimo». Se Michael Haneke già in precedenza aveva affrontato in più contesti il tema delle declinazioni del male, questa pellicola è forse l’esempio più compiuto di un’indagine di stampo quasi scientifico, in cui la violenza, sempre atroce, ma offerta come fatto compiuto e dunque più misteriosa e inaccettabile, scansa qualsiasi sospetto di gratuità. È un saggio antropologico quello che Haneke vuole realizzare, in cui la nascita della Germania nazista è semplicemente una fra i tanti figli di un male universale e tentacolare. Potente per afflato profetico l’ultima immagine, ovvero il coro dei bimbi che durante la funzione religiosa sovrasta la folla degli adulti. La metafora di una terrifica sfida già lanciata, di una pretesa imperiosa: saremo noi a dominare voi e il mondo, saremo noi a farci silenziosamente strada, saremo noi a mettere coscientemente le nostre vite nelle mani dell’orco che abbiamo contribuito a generare. E sarà impossibile per tutti noi dirci innocenti.