Il Sospetto
La storia che ha accompagnato l’uscita del nuovo film di Thomas Vinterberg è quantomeno bizzarra. Perché la pellicola è stata salutata come il grande ritorno del regista di Festen, quasi dal 1998 ad oggi il danese non abbia girato altro. Ora, potrà non aver incontrato il favore di critica e pubblico con film come Le forze del destino, con protagonista Joaquin Phoenix, o con l’amour fou adolescenziale di Dear Wendy, scritto dall’amico Lars Von Trier, non avrà bucato lo schermo (anche se chi scrive l’ha apprezzato parecchio), ma è innegabile che Submarino, datato 2010, nasconda più di un motivo di interesse. E invece Vinterberg è ancora, solamente, il regista di Festen, che deve dimostrare quanto il suo talento non si sia spento in questi quattordici anni. Oggi, fortunatamente, la tendenza sembra essersi invertita: perché la storia di Lucas, maestro costretto ad affrontare le pesanti accuse di un bambino, non solo è intima, ma gestita con intelligenza e sottigliezza. Per non parlare delle importanti assonanze che sono state sottolineate in lungo e in largo: in molti hanno rivisto in Il sospetto il Lars Von Trier di Dogville, mentre altri hanno scomodato addirittura un film come Cane di Paglia di Sam Peckinpah. La reazione, scomposta e poco lineare del protagonista, ha infatti ricordato tantissimo la rabbia di Dustin Hoffman nel capolavoro del regista de Il mucchio selvaggio.
Thomas Vinterberg sarà anche un regista poco comodo, ma è impensabile che riesca a far (veramente) sentire la sua voce solo quando vince un premio importante a Cannes (ah, dimenticavo, Il sospetto ha vinto ben due riconoscimenti sulla Croisette: miglior interpretazione maschile e Premio della Giuria Ecumenica). È comunque più facile far ricadere gran parte del merito sulle spalle di Mads Mikkelsen, attore simbolo del cinema danese e protagonista di una prova davvero maiuscola in questa pellicola (basta citarlo solo per il suo ruolo nel bondiano Casino Royale!) e soprattutto su una presunta rinascita della Danimarca cinematografica: con Susanne Bier e Niels Arden Oplev a Hollywood e Nicholas Winding Refn ormai comodamente seduto a tavola col gotha del cinema mondiale, anche Thomas Vinterberg ha oggi una vita discretamente facile. The Hunt, come si legge nel Filo Rosso, parla di comunità in modo inverso, lavorando per esclusione. Quelle dell’odio sono comunità informali che hanno in comune uno o più “obiettivi” verso i quali riversare il loro disprezzo. E nient’altro. L’atomizzazione della società odierna sembra favorire solo queste comunità, che si riuniscono in modo spesso pregiudiziale contro qualcosa o qualcuno accusandolo e ghettizzandolo prima ancora che lo faccia la giustizia.