Zabriskie Point. Non sono caduto nella piana di Michelangelo Antonioni
Zabriskie Point, USA, 1970, Michelangelo Antonioni (R.), Sam Shepard, Tonino Guerra e altri (Sc.)
Cominciamo parafrasando un celebre articolo di Giuseppe Marotta, non su Zabriskie Point, ma su L’avventura e comunque su Antonioni in toto.
Lo facciamo per sdrammatizzare e perché è compito assai arduo quello di scrivere oggi di Zabriskie Point, uno dei film più controversi di Michelangelo Antonioni. La seconda pellicola girata dal maestro per MGM ha infatti attirato su di sé una lunga serie di critiche, incassando anche un insuccesso di pubblico abbastanza clamoroso. Il regista nato a Ferrara, forte di un budget a dir poco faraonico (sette milioni di dollari, una cifra spaventosa per gli anni settanta), è stato accusato di non aver colto fino in fondo le contraddizioni del paese, gli Stati Uniti, che si è impegnato a ritrarre. Le critiche che gli furono rivolte, anche se di tutt’altra pasta, assomigliano un po’ a quelle fatte a Woody Allen all’indomani di film come Vicky Cristina Barcelona: come Antonioni vedeva l’America attraverso la lente distorcente di un approccio europeo, così Allen guarda l’Europa con lo sguardo dello straniero, riducendo il vecchio continente ad un rincorrersi di stereotipi e macchiette. Ma nonostante Zabriskie Point soffra di esagerate semplificazioni, soprattutto dal punto di vista ideologico e narrativo, la pellicola ha contribuito a segnare il confine della trasgressione al cinema. Paragonato per approccio e contenuti a film della New Hollywood come Il laureato e Easy Rider, il lavoro di Antonioni è uno dei simboli dell’andare oltre, della liberazione e della fuga. Poco importa l’esagerato dogmatismo del dialogo politico iniziale quando con una manciata di scene il regista italiano rilegge i canoni della visionarietà. E allora continuare a citare la scena in cui i protagonisti fanno l’amore rotolandosi sulla sabbia dello Zabriskie Point è necessario per scongiurare quanti leggono nell’eccessiva esilità della trama e in una regia eccessivamente compiaciuta e ombelicale il fallimento di un progetto. Perché può essere vero che Antonioni abbia ritratto gli Stati Uniti con l’occhio dello straniero, ma non perché abbia frainteso conflitti e tensioni interne. No, perché semplicemente (e in maniera alquanto efficace) si è fatto trasportare da quel senso di vuoto e infinito in cui sembra esser stato fagocitato. Sbarcato in America per demolire il sistema capitalistico e lo sfrenato consumismo, Antonioni si è invece fatto sedurre dall’(apparente) libertà urlata da spazi immensi e sconfinati. Nell’esplosione finale del film c’è una liberazione solo apparente, di quelle superficiali e meschine, roboanti e assordanti, ma anche fasulle, chimeriche e agognate.