Django Unchained
Django Unchained, USA, 2012, Quentin Tarantino (R. e Sc.)
Ci risiamo, torna Tarantino con il suo stile scoppiettante e ammiccante. I fan gioiscono, e i meno fan apprezzano. Dopo le disamine della blaxploitation di Jackie Brown, del cinema orientale di Kill Bill, del thriller anni settanta di A prova di morte e del maccaroni combat (sic) di Bastardi senza gloria, il regista americano si dedica totalmente allo spaghetti western. Il Django originale era il film cult di Sergio Corbucci del 1966 di enorme successo, tanto da dare il via ad una serie infinita di seguiti apocrifi e di film con nel titolo lo stesso nome “Django” calato in vari contesti.
Anche il prolifico Takashi Miike si è prodigato nel 2007 con suo remake Sukiyaki Western Django (dove il piatto bollito giapponese prendeva il posto dei più popolari spaghetti). Ora tocca al regista postmodernista per antonomasia rileggere uno dei generi più amati di sempre e lo fa nella maniera più prevedibile possibile o quasi. Tarantino gioca la carta dello schiavismo, grande tabù che il genere western (sia americano che italiano) ha sempre schivato e ignorato. I proprietari terrieri schiavisti e i bifolchi sudisti non sono molto dissimili dall’Hitler buffo e clownesco di Bastardi senza gloria. Ma l’iperbole della stupidità dello schiavismo alla fine serve quasi più come pretesto per imbastire la classica storia di vendetta, crescita interiore e riscatto personale, nonché dare spazio (forse anche troppo) a personaggi molto ben tratteggiati e dal carisma iconico.
La coppia di protagonisti è composta dal Django di Foxx, che sembra arrivare dritto dallo Shaft della blaxploitation, e dal composto mentore Dr. Schultz che un po’ ricorda il pinguino svedese di Franco Nero dell’altro western corbucciano per eccellenza: Vamos a matar, compañeros. Gli antagonisti invece sono speculari ai primi due, con un Di Caprio sadico ma viziato e ingenuo controllato dall’anziano subdolo schiavo Samuel L. Jackson (in splendida forma) il quale catalizza tutto il suo odio su Django, perché vede in esso il suo completo opposto.
Per il resto abbiamo la solita forma divertente e divertita tarantiniana, composta da una colonna sonora anacronistica, montaggio sgrammaticato, citazioni a non finire e camei ormai ad uso e consumo dei soli fan e intenditori (Franco Nero che si confronta con Foxx è solo un apprezzabile orpello). Lo spettacolo non manca e il divertimento pure, ma forse è tutto un po’ troppo prevedibile. Si avverte un po’ il bisogno di ritrovare in Tarantino quella vena originale e innovatrice che aveva contraddistinto la prima parte della sua carriera e il suo penultimo lavoro.