Lincoln. Liberazione senza liberazione
Lincoln, USA, 2012, Steven Spielberg (R.), Tony Kushner (Sc.)
Ebbene sì: film come Lincoln ancora esistono e registi come Steven Spielberg ancora ne realizzeranno. Ho atteso con una certa dose di curiosità la visione al cinema, soprattutto per verificare l’entità dell’interesse suscitato: in effetti la sala era colma (e ammetto che la cosa mi ha sorpresa) e caratterizzata da età media piuttosto alta (questo non mi ha sorpresa altrettanto), con tanto di spettatore sardonico che sottolinea «c’è gente colta!». E proprio qui sorge il dubbio: ci troviamo di fronte a una pellicola che lusinga il pubblico con un ingenuo coinvolgimento nelle prime linee della Storia, attraverso l’illusione di una conoscenza diretta di personalità rilevanti? Pellicole quindi come tante se ne vedono (fra le più recenti, Il discorso del re, che però serba una propria identità, maggiormente genuina)? L’incipit del film non promette bene in tal senso: durante un colloquio con alcuni soldati di colore, la figura di Abraham Lincoln compare lentamente di spalle, immediatamente identificabile in quanto icona. È vero, il presidente degli Stati Uniti, e in particolare questo presidente, è certamente investito di un’aura mistica nella mente collettiva del popolo americano: e questa apparizione, un’autentica epifania, già lo proietta su orizzonti non accessibili ai comuni mortali.
La sceneggiatura di Tony Kushner si concentra sul brevissimo arco di tempo che richiese l’approvazione del XIII emendamento alla Costituzione (entrato poi in vigore il 6 dicembre 1865), inerente all’abolizione della schiavitù: fortemente voluto da Lincoln, che non indietreggiò di fronte a mezzi poco ortodossi per assicurarsi sicuro sostegno, l’emendamento venne presentato in piena Guerra di Secessione, perfino con un’offerta di pace pendente. Con tali presupposti il film avrebbe potuto essere un intrigante saggio sui meccanismi del potere, sull’incerto sviluppo di una giovanissima nazione, e soprattutto sulla liberazione (e le sue conseguenze) di un’intera etnia da secolari vincoli di asservimento. Non è certamente un caso che il progetto Lincoln nasca in un ambito culturale come quello democratico-ebraico, di notevole peso politico e spiccatamente sensibile al tema della vessazione etnica, e soprattutto durante il governo del primo presidente di origine africana della storia statunitense. Eppure, proprio della liberazione, dell’atto catartico di un riscatto che identifica il disporre liberamente del proprio corpo con il possesso di diritti legali, c’è scarsissima traccia. Il film mostra dettagliatamente i passaggi che condussero all’approvazione dell’emendamento, ma purtroppo tutto ruota intorno a questo Lincoln-Messia, di cui si cerca parossisticamente di rilevare l’umanità (la contorta vita coniugale, il rapporto con i figli, i continui aneddoti, prolissi e astutamente naïf, che sfinivano i suoi interlocutori). Il risultato è la sensazione di trovarsi di fronte a un film fondamentalmente inutile, intriso di quella retorica solenne e ricattatoria tipica di un certo cinema americano. La pellicola trova certamente il suo lato migliore negli episodi di tentata corruzione, sobriamente ironici e camerateschi, e nei dialoghi di natura politica, caratterizzati da una verbosità sapientemente d’altri tempi, in cui danno il meglio attori come David Strathairn e Tommy Lee Jones. Quest’ultimo in particolare, nell’affrontare un personaggio complesso, forse il più affascinante, conferisce a Thaddeus Stevens una dimensione umana sagace, generosa, priva di barocchismi. Daniel Day-Lewis costituisce un caso a parte, decisamente non catalogabile: universalmente noto per gli estremi a cui porta il suo metodo recitativo, non interpreta Lincoln, è letteralmente posseduto da Lincoln, e non a caso i fotogrammi diffusi prima dell’uscita del film erano tutti riferibili alla sua aderenza quasi medianica al personaggio. In un certo senso la non-performance di Day-Lewis merita meno plauso rispetto a un’ autentica interpretazione, quella fiera e sottilmente potente di Tommy Lee Jones.
Il processo di beatificazione si conclude con il degno finale (dopo la fugace speranza disillusa che il film terminasse con la inconsapevole e pregnante uscita di casa del presidente, a sua volta soglia di una liberazione, esclusivamente personale), con Abraham Lincoln defunto che ‘risorge’ dalla fiamma durante il discorso inaugurale per il suo secondo mandato presidenziale. Finale involontariamente comico, per chi conosca ad esempio Canto di Natale di Dickens e la trasposizione cinematografica di Robert Zemeckis (torna crudelmente alla mente il Fantasma del Natale passato con il faccione di gomma di Jim Carrey che emerge dalla candela accesa), e che rivela la preferenza di Spielberg per i più ingenui espedienti simbolici, al pari della bimba con il cappotto rosso di Schindler’s List. La domanda che ora mi attanaglia è: dov’è finita quella premiata ditta Kushner/Spielberg che ha prodotto Munich? Ultima nota polemica sulla versione italiana: ci si chiede perché, da un po’ di tempo a questa parte, si affida il doppiaggio a pur bravi attori del cinema nostrano. Con tutta la stima per Pierfrancesco Favino, non era forse possibile attribuire a Lincoln la voce di un doppiatore professionista, che probabilmente si sarebbe maggiormente ‘annullato’ nel personaggio al pari dello stesso Daniel Day-Lewis?