Captive
Captive, Francia/Filippine, 2012, Brillante Mendoza (R. e Sc.)
Brillante Mendoza ha ormai diretto più di una dozzina di film. E ha vinto più di un premio internazionale. Impossibile, «mai sentito nominare», direte voi. Altri, quelli più attenti, che un tempo venivano chiamati snob, vi risponderanno piccati: «Per forza se guardi solo quello che passano in sala in Italia sei condannato ai soliti cinepanettoni». E, una volta tanto, gli snob hanno ragione. Perché Brillante Mendoza, insieme a Lav Diaz e ad un pugno di altri registi, è una delle punte di diamante della new wave che le filippine stanno vivendo negli ultimi dieci anni. Cosa sia questa “nuova onda” è presto detto: brutalizzando, anche grazie all’avvento del digitale, tanti cineasti talentuosi hanno deciso di avvicinarsi al cinema senza per forza andare a ingrossare le fila del blockbuster più retrivo che nelle Filippine riempie le sale. E facendolo raccontano (anche) il loro paese, infilandosi nei gangli più remoti delle sue contraddizioni. Gli addetti ai lavori già seguono Mendoza da un bel po’. Magari non dalla sua apparizione al Festival di Locarno nel 2005 con Masahista, ma almeno almeno da quando nel 2009 ha vinto il premio per la miglior regia al Festival di Cannes con il cupo Kinatay. E proprio alle atmosfere di Kinatay torna Captive, presentato alla Berlinale 2012 e in arrivo nei cinema italiani con esattamente un anno di ritardo. Atmosfere simili significa una storia scura e sofferente di rapimento. Anche se siamo su territori altri, perché la nuova fatica di Brillante Mendoza mette in scena una storia vera, quella del rapimento da parte del gruppo terroristico islamico Abu Sayyaf di numerosi turisti nelle Filippine nel 2001. Recensioni altalenanti per un film che dai più intransigenti è stato descritto come un’opera capace di «riprodurre la sofferenza e la lunghezza della prigionia, troppo poco per salvare questo thriller privo di misericordia ma ridondante» (1). Captive è in realtà un’operazione molto interessante, sicuramente non troppo originale, ma con diversi spunti eccellenti. È in prima battuta girato con un stile documentaristico, nelle location reali dei fatti da cui il film è tratto, con attori non professionisti che affiancano icone come la sempre impeccabile Isabelle Huppert. La sensazione di claustrofobia, quella di una gabbia da cui è impossibile fuggire, pervade Captive così come pervadeva il precedente Kinatay. Ed è questo l’elemento trascinante del film, la capacità di avviluppare lo spettatore e renderlo impotente davanti alle immagini che gli si continuano a propinare. Nessun film incarna meglio il nostro tema del mese: i terroristi islamici, il nemico, non sono poi la proiezione di quanto l’occidente ha fatto per scatenare il loro odio? In una visione azione-reazione della storia questo scenario non è poi così fantapolitico e rende gli estremisti del Corano più umani, e quindi più simili e specchiati a noi di quanto i media ci vogliano far credere.
Gradirà lo spettatore italiano? La risposta, una volta tanto, è semplice: impossibile dirlo, perché non vedrà il film, distribuito com’è in una sparuta manciata di sale.