Riflessioni su Memorie di un assassino
Uscito nelle sale italiane con 17 anni di ritardo, sfruttando l’onda del successo di Parasite (film trionfatore al Festival di Cannes e agli Oscar 2020), Memorie di un assassino (Memories of murder) di Bong Joon-ho è la seconda opera del regista sudcoreano, quella che fece scoprire al mondo il suo talento.
Il film, uscito nel 2003 con record di incassi in Corea del Sud, vincitore di numerosi premi cinematografici internazionali, narra la storia delle indagini e dei tentativi di catturare il primo serial killer coreano attivo tra il 1986 e il 1991 a Hwaseong, una piccola cittadina di campagna. A occuparsi delle indagini sono i poliziotti del posto Park (interpretato dal brillante Song Kang-ho) e Cho (Kim Roi-ha), a cui successivamente si affianca il detective Seo (Kim Sang-kyung), proveniente da Seul. I primi due adottano metodi brutali e arcaici perché convinti che il colpevole salterà fuori: «Non serve usare la testa, tanto questo è un paese piccolo, prima o poi lo arrestiamo». Il terzo è più equilibrato e metodico. Riusciranno i tre a collaborare e a trovare l’assassino?e
L’opera è un lavoro di grande maestria: il regista infatti decide di mettere in scena un thriller con l’intento in verità di mostrarci diversi aspetti legati alla società coreana, a partire dalla denuncia dei metodi della polizia che, sotto il regime dittatoriale, tortura i sospettati senza avere prove concrete, fino a estorcere una confessione da sfruttare a livello mediatico a proprio vantaggio. Non riuscendo a trovare il vero assassino dunque se ne crea uno: un meccanismo, questo, che in Italia abbiamo visto in Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio. Se nel film di Bellocchio l’obiettivo del potere è screditare gli studenti manifestanti indicandone uno come colpevole di un omicidio, Bong mostra come l’azione della polizia ricada sugli ultimi: nell’elenco dei sospettati, infatti, finiscono nell’ordine un ragazzino ritardato, un operaio che si masturba su biancheria intima e un giovane impiegato arrivato in città poco prima che iniziassero gli omicidi.
Oltre all’aspetto classista del film, è interessante notare anche come il progressivo sviluppo delle indagini porti quasi a uno “scambio di personalità” tra Park e Seo: quest’ultimo che all’inizio sembra avere in pugno la situazione, alla fine si trova disperso fra i campi e le strade sterrate di Hwaseong, perdendo il controllo. Controllo che invece Park pare acquisire.
Memorie di un assassino è anche un’opera che affronta la difficoltà: quella della polizia a muoversi, dovuta alla mancanza di mezzi per poter investigare e al fatto che le risorse vengano convogliate per sedare i tentavi di rivolta presenti nel paese. Una difficoltà rappresentata dal fatto che sia il metodo più intuitivo di Park (il poliziotto di campagna), che quello più razionale di Seo (il poliziotto di città) sembrano non portare a niente. I due diventano così l’emblema della difficoltà di un paese in quegli anni arretrato e che “strizza l’occhio” agli U.S.A., visti come modello di riferimento, e il cui aiuto per un’analisi di un campione di sperma si rivelerà indispensabile.
In Memorie di un assassino possiamo rivedere elementi ripresi in Parasite (come le scene ambientate nei sotterranei e l’uso dello slapstick), ma se quest’ultimo è una “macchina perfetta” in cui il cerchio si chiude, ecco che l’aspetto più intrigante del primo sta proprio nella sua imperfezione, simboleggiata da un finale bellissimo che si svolge nel luogo dove tutto è iniziato, lasciando però un senso di mistero che il regista mai più è riuscito a replicare.
Il risultato finale è un thriller incredibile, da recuperare per chi non l’avesse visto, che trae sì spunto da opere precedenti, ma che è anche un precursore di altre, come ad esempio Zodiac (2007) di David Fincher.