La sineddoche della liberazione
«Non è la libertà che manca. Mancano gli uomini liberi.» Leo Longanesi
Come avrete intuito, abbiamo deciso di parlare di liberazione, in questo nuovo numero di BILLY, un numero nuovo di zecca che corre a cavallo tra gennaio e febbraio. Ovviamente ce l’hanno ispirata, quest’insana decisione, due film in uscita in questo periodo, due film diversi ma simili, due idee di cinema lontane ma forse contigue, due storie, in ogni caso, che parlano di liberazione, e ne parlano all’americana, guardando, va da sé, (a)gli States – e quindi, ovviamente, due opere che accolgono a pretesto narrativo soprattutto la rappresentazione della questione razziale e della schiavitù.
Abramo Lincoln, di cui il film di Steven Spielberg (Lincoln) è l’ovvio bio-pic, è stato presidente degli Usa dal 1861 al 1865. Il Django di Tarantino inizia il suo percorso di liberazione (Django Unchained, ossia Django libero dalle catene, vale a dire scatenato) nel 1858, anno in cui il futuro presidente perde la corsa per diventare senatore. Quattro anni dopo, nel 1862, Lincoln firma la Proclamazione di emancipazione. La stessa America, lo stesso periodo, quindi, ma contemporaneamente due luoghi e due tempi (e due generi) che, nella rappresentazione e non solo in essa, appaiono lontani, differenti. Ma con un forte tratto in comune, appunto: il senso, la necessità, l’idea, la forza della liberazione.
Ma ciò che ci ha interessato, a noi di BILLY, è soprattutto come Lincoln e Django Unchained – oltre alle Americhe che raccontano – ci parlino in realtà in termini assoluti e ci parlino soprattutto del presente, e forse di ogni presente. L’America che raccontano non è lontana dagli Stati Uniti d’America di oggi, mentre la liberazione che mettono al centro della propria narrazione si rivela come un’esigenza profondamente contemporanea e, come dire?, estesa.
Che i due film possano piacere o meno conta poco, a nostro modo di vedere; conta invece il cinema, la sua capacità metonimica, la forza mitopoietica, e di più ancora – se ci concedete la licenza d’imprecisione – il suo potere di farsi sineddoche: le pellicole di Tarantino e Spielberg, accomunate in un racconto che si fa sintesi, ne sono un esempio indiscutibile.
La liberazione personale, quindi, diviene politica, la liberazione fisica si fa sociale. La storia di ogni film è la storia di qualcuno a cui succede qualcosa che gli incasina la vita, recitano i manuali di sceneggiatura; ma se decidiamo di raccontarla – la storia dell’ultimo degli schiavi come la storia di uno dei presidenti più importanti degli Stati Uniti – i confini sfumano, la parte diventa il tutto, il singolare diventa plurale, il genere diventa la specie: si realizza la sineddoche, e, per noi e per voi, in particolare e in questo numero invernale, la sineddoche della liberazione.