Queer di Luca Guadagnino
Regia 4
Soggetto e sceneggiatura 4
Fotografia 4
Cast 4
Colonna sonora 4

Nel 1985 il romanzo breve di William Burroughs Queer viene dato alle stampe per la prima volta, quasi quarant’anni dopo da quando venne originariamente scritto, come secondo capitolo di una ideale trilogia composta prima da Junky e poi da Lettere dallo Yage. Nel 1991 David Cronenberg porta sul grande schermo Il Pasto Nudo, primo adattamento ..

Summary 4.0 favoloso

Queer di Luca Guadagnino


Nel 1985 il romanzo breve di William Burroughs Queer viene dato alle stampe per la prima volta, quasi quarant’anni dopo da quando venne originariamente scritto, come secondo capitolo di una ideale trilogia composta prima da Junky e poi da Lettere dallo Yage. Nel 1991 David Cronenberg porta sul grande schermo Il Pasto Nudo, primo adattamento cinematografico da un testo di Burroughs, e proprio in quegli stessi anni Luca Guadagnino si appassiona tanto alla lettura di Queer che pensa di scriverne una sceneggiatura. Oggi possiamo finalmente vedere in sala la materializzazione cinematografica di quel desiderio di portare sullo schermo la storia d’amore tra Lee, un americano statunitense di mezza età in esilio a Città del Messico, e il più giovane e avvenente Eugene Allerton. La sceneggiatura nel frattempo è passata nelle abili mani di Justin Kuritzkes che solo un’anno fa aveva esordito firmando quella del film precedente di Guadagnino, Challengers. Due film molto diversi, nel ritmo, nei toni, nella linearità del racconto, della geografia che portano in scena e nella scelta del cast, dove tuttavia tornano sempre a parlare i corpi con le loro pulsioni di paura e desiderio

Queer prosegue una certa tendenza del cinema contemporaneo a dialogare con l’eredità di alcuni dei più celebri scrittori statunitensi del Novecento: lo ha fatto sempre Cronenberg nel 2012 con Cosmopolis di Don De Lillo, autore di cui abbiamo potuto ritrovare al cinema qualche anno fa Rumore Bianco di Noam Baumbach; lo ha fatto Paul Thomas Anderson con Vizio di Forma, primo “impensabile” adattamento di un romanzo di Thomas Pynchon, di cui il regista presenterà proprio quest’anno il suo personale adattamento contemporaneo di Vineland, che si intitolerà One Battle After Another; anche Philip Roth è stato portato al cinema con Inganno di Arnaud Desplechin e, ancora prima, sul piccolo schermo, con la miniserie HBO Il complotto contro l’America. Tutte opere di autori noti per il non facile grado di trasfusione della loro prosa allo schermo, e Burroughs, più di tutti, non verrebbe a meno. A differenza dell’impresa impossibile compiuta da Cronenberg trent’anni fa con Il Pasto Nudo, Queer è tuttavia uno dei suoi romanzi più “sobri”, uno degli ultimi realisti, e quindi quello che si presta maggiormente ad una traduzione per il grande schermo. Così Guadagnino attraversa Burroughs entrando letteralmente dentro le prime righe dei manoscritti di Queer: “Lee rivolse la sua attenzione a un giovane ebreo che si chiamava Carl Steinberg“. E’ la splendida sequenza dei titoli di testa, con la voce angelica di Sinead O’Connor a fungere da overture di una colonna sonora che ci proietta avanti nel tempo in un repertorio che spazia dai Nirvana ai Verdena, oltre alle immancabili e abituali sonorità dii Trent Reznor & Atticus Ross. I titoli si proiettano con un montaggio di diverse costruzioni di fogli disposti in una stanza da letto, finché lo sguardo si posa sulle prime parole che ci introducono a Lee, in uno dei tanti locali ricorrenti nella prima parte del film, ambientata a Città del Messico. Lee si presenta con un primo piano che ci introduce alla star del film Daniel Craig, un uomo in esilio dagli Stati Uniti, di cui non sappiamo molto se non alcune implicazioni legate alla sua passata tossicodipendenza, di cui possiamo leggere nello sguardo febbricitante una tempesta di impulsi corporei che manifestano l’astinenza da un desiderio più profondo attorno a cui ruota tutto il film: il semplice bisogno di un altro contatto umano.


In Challengers era la soggettiva della pallina da tennis che rompeva i confini del desiderio e ne sublimava la tensione sessuale, finendo per unire nel piano sequenza le conflittualità fino a quel momento trattenute nel gioco cinematografico del campo-controcampo evocato dal tennis. Il desiderio in Queer vola attraverso sguardi che si proiettano lungo le pareti e i tavoli dei locali, alla ricerca di un’attenzione dalla persona desiderata, in assenza della quale al regista non resta che esaudire la matrice letteraria in un surrealismo che recupera anche le più semplici soluzioni formali del linguaggio cinematografico. Una scena su tutte, come nel romanzo, quella al cinema dove Lee e Allerton, per la prima volta insieme, sono assorti nella visione dell’Orfeo di Jean Cocteau, ripresa fedelmente dal libro dove le proiezioni ectoplasmatiche vengono restituite visualmente con la dissolvenza di un braccio che immagina di accarezzare il volto di Allerton. Quando i due non sono insieme è Daniel Craig a irrompere nel campo delle inquadrature per riempirlo con la sua bizzarra personalità, alla ricerca di un’attenzione che inizialmente non viene ricambiata, per poi sfogarsi in una cascata di erotismo. Per quasi un quarto di secolo lo abbiamo associato all’icona dell’ultimo Bond, invece ora lo vediamo completare il percorso (già individuabile in Knives Out e, perché no, già in 007) di una fusione definitiva dentro una queerness che abbraccia un modello di virilità fragile, consumata dall’alcool e dalle droghe, indagata da una corporalità che parla tanto quanto alcune parole rievocate fedelmente dal romanzo. Daniel Craig con il suo Lee regala un’interpretazione magistrale di grande intensità, capace di fare esplodere la drammaticità dei suoi rapporti umani con un realismo che si fonde perfettamente con l’artificiosità del mondo che Guadagnino gli cuce addosso. Una Città del Messico quasi completamente ricostruita negli studi di Cinecittà, una scelta che riconferma una prassi già toccata da Cronenberg anni fa, quando ricostruì la Tangeri del Pasto Nudo in Canada. Una dimensione dichiaratamente fittizia in cui poter colorare a suo piacimento la temperatura onirica di Lee che trasfigura la scenografia per fondersi con essa, come tramutarsi nel rumore bianco di alcune frequenze catodiche: una creatura fantascientifica di cui viene mostrato chiaramente il forte interesse intellettuale, alimentato da riviste e fumetti del genere. Il Messico è una regione d’intermezzo, nel continente americano come nel mondo della Guerra Fredda, dove le superpotenze puntano gli occhi sul Sud America per intercettare le misteriose proprietà di una pianta allucinogena che si pensa possa contenere il segreto della telepatia.

La telepatia però è solo un altro mo(n)do per Lee di lasciare sconfinare il proprio bisogno di umanità nell’altro, nell’esotismo ignoto del viaggio nella giungla, alla ricerca di risposte indotte dall’ayahuasca, studiata dalla dottoressa Cotter, nascosta in una capanna da qualche parte nella foresta. I frammenti di quel surrealismo che avevamo già potuto percepire in Suspiria, trovano nel viaggio di Lee e Allerton una completa fusione corporea e mentale, carnale. Essere queer per essere disincarnati, dislocati nella geografia come nello spirito, nel sesso come anche nella cultura, in una dimensione “diversa” con se stessi nel corpo dell’Altro, in un’unione performativa (come nel match finale di Challengers) che regala una sequenza di debordante psichedelia. Rispetto al film precedente, Queer si impone però come un’opera più cerebrale, da un lato dimostra una composizione narrativa più lineare, quasi rispettosamente romanzesca nella suddivisione in capitoli, mentre da un altro lato si disvela anche più rischiosa, quando l’esasperato onirismo delle scene sembra talmente ricercato da sembrare dovuto, con incursioni al limite del kitsch. Sono scelte coraggiose che non compromettono lo spirito di un’operazione che mantiene intatto e stratificato il fascino per una storia d’amore anomala, per l’appunto queer, tutt’altro che grande, perché piccola e fragile come il suo protagonista, desolante come un viaggio al termine della notte messicana in cui addormentarsi un’ultima volta. Il finale, che guarda a Kubrick e chiude un’odissea nello spazio messicano, trova tra le quattro pareti di un appartamento spoglio una città straniante, grande come un plastico in miniatura, ci abbandona soli con il protagonista in una visione intima, un altro tassello nella filmografia di uno degli autori contemporanei più dentro e al di fuori del sistema hollywoodiano

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