Berlinale 75. Ultimo atto.

Berlinale 75. Ultimo atto.

Settantacinque anni di Berlinale si chiudono sotto una neve che ormai è solo memoria bagnata sulle strade di una città che continua cambiare, un po’ come il suo festival. Un festival che ha forse tentato, in maniera non così necessaria, di rinnovarsi sotto la guida di Tricia Tuttle, oscillando tra proposte radicali e aperture al mainstream, adottando un equilibrio non sempre convincente e lasciandoci con la sensazione persistente di un appannamento, di un’urgenza smarrita.

Golden Bear for Best Film 2025: Drømmer (Dreams (Sex Love)) by Dag Johan Haugerud produced by Yngve Sæther and Hege Hauff Hvattum
© Richard Hubner / Berlinale 75

Ma quindi cosa resta di questa Berlinale? Quale ipotesi di cinema e di contemporaneo abbiamo umilmente intercettato?

Abbiamo innanzitutto sentito e visto e attraversato la potenza irrimediabile della dislocazione corporea. I personaggi che abbiamo incontrato sembrano non appartenere mai pienamente agli spazi che abitano, come se esistesse una frattura invisibile tra corpo e ambiente.

In “Yalla Parkour” troviamo un corpo atletico che diventa strumento politico per rifiutare i confini imposti, fuori e dentro la Palestina. Il parkour di Ahmed non è solo disciplina sportiva ma negazione fisica, in atto, delle barriere che confinano Gaza, mentre, in una condizione inversa, il corpo di Areeb, la regista del documentario, sfebbra del desiderio del ritorno — sentimentale, emotivo e fisico — in quella stessa prigione, poco prima dell’apocalisse, in un paradosso che esita nel contemporaneo in maniera dirimente.

Diversamente, ma non troppo, ecco che il giovane poeta di Hong Sangsoo in “What Does That Nature Say To You” si perde nell’ampiezza della casa della fidanzata, come se lo spazio domestico fosse una geografia ostile. E nei corpi degli studenti ucraini di “Timestamp”, la normalità diventa un muscolo da allenare sotto le bombe, un’ostinazione fisica e inebriante, prima che psicologica.

Una dislocazione che diventa immagine sociale per l’anziana protagonista di “O último azul”, costretta a fuggire da un Brasile — ma è solo il Brasile? — che non concepisce più l’invecchiamento come parte accettabile della società. Come sottolinea Ilaria Feole, il film ribalta la visione tradizionale del tramonto, mostrandoci la vecchiaia come «età moderna, aperta, paradossalmente lanciata verso il futuro».

Silver Bear Grand Jury Prize 2025: O último azul (The Blue Trail) by Gabriel Mascaro
© Alexander Janetzko / Berlinale 2025

Ma è davvero solo finzione, ciò che vediamo, insieme all’esercizio del potere paradossale che la finzione stessa esercita? Il cinema pres(en)tato a Berlino ci dice che la verità, posto che esista o sia mai esistita, non è sicuramente un luogo a cui approdare attraverso il realismo. È solo la consapevolezza dell’artificio che può provare a suggerire l’autentico.

La fa “Koln 75” quando costruisce un mito attorno all’iconico concerto di Keith Jarrett a Colonia, negli sguardi in macchina, complici, dei personaggi, che però non coinvolgono lo spettatore ma piuttosto rivendicano la natura artificiale sia della narrazione sia della storia sia della vita stessa. È in questa stessa ammissione di inganno che la storia diventa più autentica del dato storico.

In “Was Marielle weiß”, invece, la telepatia della protagonista e la sua possibilità di vedere ciò che i genitori fanno, creano un quotidiano altro — forse parallelo, forse estraneo o forse incidente — di cui i genitori stessi diventano attori (in)consapevoli, modificandosi nella (in)consapevolezza di essere visti. La giovane regista involontaria di un reality domestico, svela così quanto la verità delle relazioni sia spesso ipocrita, e soprattutto sempre e comunque mediata da ciò che gli altri, appunto, potrebbero vedere.

Anche il cinema di Cattet e Forzani, in “Reflet dans un diamant mort”, mostra quanto il passato e il suo ricordo — il cinema stesso? L’arte? — diventino un dispositivo deformante attraverso cui guardiamo il presente, un presente che, per altro, non è sicuro che esista. L’eccesso estetico, così, non è un ornamento ma una necessità: solo attraverso la sovraccarica artificialità delle forme possiamo forse percepire l’illusorietà e la fallacia della memoria, cioè della vita stessa.

Silver Bear Jury Prize 2025: El mensaje (The Message I Die Nachricht) by Iván Fund
© Alexander Janetzko / Berlinale 2025

Eppure in questi dieci splendidi giorni la Berlinale ha offerto anche un cinema ossessionato dal tempo, per quanto non nel senso tradizionale della nostalgia o della fantascienza, ma piuttosto in quella tensione ad abitare una zona temporale ibrida in cui passato e futuro collassano in un presente dilatato e incerto.

I protagonisti anziani di “O último azul” e “Eighty Plus” non si voltano indietro ma ostinano la direzione degli sguardi nella direzione opposta, esasperando un paradosso temporale solo apparentemente banale, e in realtà follemente reazionario: perché se sono i più vecchi a essere proiettati verso il futuro, ecco che sono i giovani quelli che si (di)mostrano spesso bloccati in un presente eterno. E proprio l’Orso d’oro, “Dreams”, fa notare Giulio Sangiorgio, sembra esplorare questo cortocircuito temporale dentro quei desideri che si incrociano tra generazioni.

Anche in “Mickey 17” di Bong Joon Ho, il tempo si piega in qualche modo su se stesso attraverso la replicazione del protagonista, creando un labirinto identitario che parla della nostra epoca di simultaneità digitale. Non è più questione di sequenzialità ma di sovrapposizione: passato e futuro coesistono in un presente stratificato, ma immateriale, intangibile.

Silver Bear for Best Director 2025: Huo Meng for Sheng xi zhi di (Living the Land)
© Alexander Janetzko / Berlinale 2025

Infine ci piace pensare che l’aspetto forse più significativo che ci resta addosso, dopo questa Berlinale, sia la natura — come dire? — sismografica del cinema contemporaneo. Non si cercano risposte o rappresentazioni stabili del “reale”, piuttosto si registrano i tremori, le oscillazioni, i movimenti tellurici di un mondo in costante, devastante, prevedibile trasformazione.

In questa capacità di rilevare scosse impercettibili potrebbe forse addirittura risiedere una nuova necessità per il cinema: non più arte della rappresentazione ma della risonanza. Un cinema che vibra insieme al mondo, che ne registra le frequenze più sottili, che trasforma in immagini ciò che ancora non ha nome né forma.

Ciò che abbiamo visto a Berlino è un cinema fragile ma autentico. In una contingenza precaria ma che sembra eterna come quella che viviamo e che insegue disperat(ament)e certezze, queste opere accettano il rischio dell’incompiutezza, dell’errore, del fallimento. Non pretendono di catturare il reale, ma provano a sintonizzarsi con le sue variazioni.

La Berlinale allora ci libera e si libera: in un mondo che collassa sotto il peso delle sue molteplici crisi, il cinema non può più fingere di essere uno specchio neutro e impara a muoversi con il tremore della terra, a registrare le vibrazioni dell’incertezza, a farsi strumento sensibile che non rappresenta il caos ma lo incorpora nelle sue forme.

Un cinema che, pur sapendo di non poter più dire la verità 24 volte al secondo, con buona pace di Godard, continua istintivamente a cercarne le tracce nelle crepe del visibile, negli spazi tra le parole, nei silenzi tra un’immagine e l’altra.

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