A Complete Unknown: La musica al centro
A quasi vent’anni di distanza da Walk the Line (2005), film su parte della vita di Johnny Cash, il regista James Mangold ritorna al biopic musicale incentrandosi questa volta sulla figura di Bob Dylan limitando l’opera – tratta dalla biografia Dylan Goes Electric! di Elijah Wald – esclusivamente ai primi anni ’60 (1961 – 1965), periodo in cui il cantautore statunitense da perfetto sconosciuto ottiene il successo suonando folk per poi passare alla chitarra elettrica e a esibirsi con una band cambiando la sua musica.
A differenza del grandissimo Io non sono qui (Todd Haynes, 2007), dove vi sono più attori che interpretano Dylan a seconda dei vari momenti della sua carriera ed età, Mangold – dirigendo un progetto che cerca di raccontare il cantautore americano in chiave hollywoodiana e non con un taglio documentaristico come ad esempio ha fatto Martin Scorsese in due occasioni: No Direction Home: Bob Dylan (2005) e Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story by Martin Scorsese (2019) – affida la sua interpretazione a un convincente Timothée Chalamet (candidato all’Oscar come miglior attore protagonista) mettendo al centro la musica, sono tantissimi infatti i brani cantati, anche se non interamente, dall’attore e dagli altri membri del cast su tutti Monica Barbaro (candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Joan Baez con cui Dylan ebbe una travagliata relazione sentimentale e artistica qui raccontata) ed Edward Norton nel ruolo del cantautore folk Pete Seeger.
Musica al centro non solo dal punto di vista uditivo, ma anche fisico e critico visto che gli eventi portanti del film dove tutto si decide a livello culturale, storico e pure sentimentale (vedi la relazione con la pittrice Sylvie Russo interpretata da Elle Fanning), sono i due concerti tenuti al Newport Festival nel 1964 e nel 1965: se il primo testimonia il successo ottenuto da Bob Dylan con una folla adorante che lo acclama, il secondo segna la sua contestazione da parte del pubblico, con tanto di oggetti lanciati sul palco, per via del passaggio alle sonorità elettriche fortemente contestate anche dagli stessi organizzatori.
Ecco che allora la musica diventa anche fonte di scontro ideologico per lo stesso Dylan che, da par suo, vuole sperimentare sonorità diverse, ma si ritrova a essere quasi “prigioniero” di quelli che sono i gusti del pubblico che si è conquistato e dell’ambiente che lo ha lanciato, quello per cui lui non si deve «mettere in competizione con i Beatles».
Non facciamo certo spoiler dicendo che alla fine a vincere sarà l’animo ribelle di Dylan, convinto che il folk debba essere rinnovato per arrivare a più persone possibili e non ancorato a una forma di conservatorismo poiché si verrebbe a creare così una contraddizione con quelle che sono le tematiche cantate quali ingiustizia sociale, gli orrori della guerra, le critiche al capitalismo. Un’opera dunque quella di Mangold che vuole essere un modo per avvicinare le generazioni più giovani alla scoperta di Bob Dylan – come dimostra la scelta di Chalamet e il modo di raccontare la vicenda – e di mandare a loro il messaggio di andare avanti per la propria strada e credere nelle proprie idee chiudendo il film con un Bob Dylan che, entrato in scena come un ragazzino di talento venuto dal nulla con un’aria anche di mistero, se ne esce alla fine libero, sferzante a bordo della sua moto lanciato a tutta velocità verso la sua strada.