Trilogia della distanza: “Aicha è tornata”, “This is not paradise” e “Les amoureux des bancs publics”

Dal 2011 al 2017, nell’arco di sei anni quindi, Sunset produce, tra gli altri, tre documentari che non solo vedono attivo il medesimo gruppo di persone, per quanto a geometria variabile, ma che rappresentano idealmente, forse anche per questo, un percorso unitario molto rilevante. Tre documentari che girano per numerosi festival nazionali e internazionali, vincendo anche diversi premi, e che finiscono per rappresentare una sorta di trilogia, a forte presenza femminile, dedicata tanto alle geografie complesse della contemporaneità — una contemporaneità in parte mutata e in mutazione, ad oggi, rispetto ad allora, ma ancora strutturalmente attuale — quanto al rapporto con un’alterità ferita, periferica, trascurata e disordinata dalla brutalità del potere, sia esso economico o sia esso squisitamente politico.

Gaia Vianello, autrice e regista, Lisa Tormena, autrice, regista e produttrice, Juan Martin Baigorria, regista e produttore, partecipano a vario titolo alla realizzazione, nel 2011, di Aicha è tornata, quindi, nel 2014, di This is not Paradise, e infine, nel 2017, di Les amoureux des bancs publics – La strada che resiste con l’arte. Tre film, tre documentari, tre luoghi e tante storie, spesso corali, per provare a rendere più prossime, e quindi attraversarbili, le soglie di distanza che il cinema del reale si trova a varcare. Ecco che se Aicha è tornata racconta le migrazioni di ritorno dal cosiddetto “triangolo della Morte” (tra le province di Khouribga, Beni Mellal e Fkih Ben Salah, principale bacino d’emigrazione dal Marocco verso il sud dell’Europa), descrivendo le problematiche del ritorno, del fallimento, da un punto di vista di genere, concentrandosi sulle storie femminili, allora non di meno This is not Paradise attraversa il Libano e quella Beirut in cui migliaia di donne vivono in condizione di semi-schiavitù e senza alcuna protezione legale,  strappando dall’oblio un aspetto quasi sconosciuto della realtà medio-orientale, e allo stesso modo, infine, Les amoureux des bancs publics abita, in Tunisia, quei movimenti artistici e culturali di strada in grado di rendere evidente l’importanza del legame tra cultura e spazio pubblico come nuova forma di resistenza.

Sono documentari puri, se mi si concede il termine, privi di tutti quegli orpelli della dimensione visuale attuale che spesso finiscono per stritolare le narrazioni legate al reale, sono documentari orgogliosamente poveri, in termini di budget, e autentici, elaborati sulla e dalla pelle di chi li racconta, forse sono documentari lontani dal cinema del reale — perché no, le due definizioni non sempre circoscrivono lo stesso campo né portano con sé il medesimo significato — ma in realtà solo perché la locuzione si afferma più tardi, sono prodotti di discussione e discutibili, sono agganciati al reale in maniera dolorosa e deflagrante.

Son quindi anche testimoni di un periodo in cui il documentario indipendente aveva certe necessità e operava di frequente scelte specifiche, e che dimostrano che la disciplina del reale è da sempre lo spazio della possibilità, meno imbrigliata, più capace di sconfinare, maggiormente attenta a ciò che anche solo apparentemente scorre sotto la pelle della contemporaneità, come un demone. 

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