Kokomo city

Kokomo city

La transessualità non è semplice da raccontare, come per ogni sfumatura di un contemporaneo complesso e pieno di conflitti come il nostro, ha bisogno di un vocabolario in grado di restituire le realtà intime e stratificate che l’abitano. E anche quando i racconti esistono e vengono articolati, saperli e volervi ascoltare non è un atto immediato. Kokomo City è uno di questi racconti, un documentario nel quale D. Smith ha dato voce a sei sex worker transgender dell’Atalanta impegnate nella loro lotta intima e quotidiana per l’autodeterminazione, per l’accettazione e per la sopravvivenza.

Le protagoniste Daniella Carter, Koko Da Doll, Liyah Mitchell e Dominique Silver, supportate da un linguaggio audiovisivo in sintonia con la loro energia vitale, ci parlano di quanto è complesso essere sex worker transgender in una società che stigmatizza tanto le sex worker, quanto le persone transgender. Uomini che scelgono la transizione per diventare donne, e che da tali fanno del sesso un lavoro, per scelta, per vivere dignitosamente, per avere una casa e una dignità, per incarnare un femminile che hanno sempre desiderato, pur sapendo che dietro ogni cliente si cela la lotta per la sopravvivenza, per la tutela della propria persona. Sì, perché la potenza esplosiva di questo documentario è la loro lucida consapevolezza delle dinamiche di dominio che innervano le loro vite: uomini cisgender che svalutano i loro corpi, stigmatizzandoli, mettendoli a servizio di un piacere carnale e violento che vive nell’ombra della vergogna.  

Le sei sex worker raccontano di quanto sia complesso essere sé stesse in un contesto che mette ai margini una comunità, quella trans, e che ha normalizzato la svalutazione e lo sfruttamento dei loro corpi “non conformi”, trasformati in feticcio. È un racconto intimo e collettivo che stravolge, ma privo di drammaticità; attraversa diversi piani e gli interseca. Oltre il lavoro c’è anche la famiglia, primo scoglio da affrontare quando si sceglie di andare oltre il sesso e il genere attribuiti alla nascita. Sono le famiglie che faticano ad accettare i percorsi di transizione, soprattutto quando si rifiuta il genere maschile che gode di una posizione privilegiata nella società. E dopo la famiglia, ci sono le altre donne, quelle cisgender che guardano alla comunità trans con lo stesso sguardo di imbarazzo di una società imbevuta della retorica binaria, in affanno con le diversità. 

In Kokomo City il “non conferme”, quello dei corpi e delle identità sconfinate e stigmatizzate, prende forza da una ribellione collettiva, articolata quotidianamente da donne che pretendono il loro spazio e il loro diritto all’autodeterminazione e alla vita. È un documentario di lotte: quella per la sopravvivenza, per un riconoscimento non filtrato dallo sguardo predominante dell’uomo bianco cis, quella per sovvertire l’immaginario collettivo imbevuto di dinamiche di potere eteronormate. L’energia esplosiva di queste sei donne riverbera forte in ogni loro racconto. 

Kokomo City, dunque, è la prova di quanto il documentario sia un atto politico nel suo essere spazio dove i margini diventano protagonisti.

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