No other land

No other land

La Palestina è il mondo,” ci racconta la filosofa e attivista Silvia Federici in un’intervista a cinque puntate del Podcast Il Mondo, di Internazionale. Quanto accade in Palestina non riguarda solo i palestinesi: ci coinvolge tutti. Il sistema capitalista, che è intrinsecamente coloniale, si è da sempre sostenuto attraverso espulsioni di massa e attacchi alle strutture fondamentali della riproduzione sociale. Il conflitto in Palestina rappresenta l’esempio più drammatico di un processo necessario alla sussistenza del sistema in cui tutti noi viviamo e accettiamo di vivere. In Palestina non soltanto vengono uccisi i Palestinesi, ma ogni giorno vengono distrutte le infrastrutture riproduttive che pregiudicano il loro futuro. 

È proprio questo che racconta No Other Land, opera prima del collettivo palestinese-israeliano formato da Basel Adra, Yuval Abraham, Hamdan Ballal e Rachel Szor. Il documentario mostra le espulsioni forzate che l’esercito e i coloni israeliani perpetrano nei confronti dei palestinesi di Masafer Yatta, nella Cisgiordania occupata.

Attraverso i video d’archivio della famiglia del giovane giurista e attivista Basel e dei suoi vicini, No Other Land ricostruisce la storia di resistenza della comunità palestinese di Masafer Yatta negli ultimi 20 anni. Partendo dagli anni d’infanzia di Basel, vengono seguite le proteste pacifiche contro le espulsioni, la militarizzazione e il sistema di apartheid dello stato israeliano alle quali Basel non soltanto partecipa, ma di cui, dal 2019, inizia a raccontare tramite la sua telecamera e il supporto dell’amico e giornalista israeliano Yuval.  

Lo spettatore, guardando il documentario che lo scorso febbraio è stato proiettato in anteprima alla 74° edizione della Berlinale, assiste a un’escalation di brutalità. Già dalle prime immagini, l’occupazione si rivela uno stillicidio: ogni settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, l’esercito israeliano arriva a Masafer Yatta come una colonna di camion e ruspe. Ogni volta che la colonna arriva, i soldati demoliscono una casa, abbattono un palo della luce, sigillano un pozzo o distruggono una scuola. Poi, indifferenti ai corpi che si frappongono tra loro e l’oggetto della distruzione, come sono arrivati, se ne vanno, lasciando spazio agli insediamenti di coloni. Dalla distruzione delle strutture – e quindi del futuro di chi vive nei territori occupati – all’assassinio, il passo è breve: Harun Abu Aram è solo uno dei tanti che, disarmato, cercando di difendere i propri strumenti di lavoro, viene ucciso da un soldato israeliano.

Ti esalti facilmente. Vorresti che tutto accadesse velocemente. È come se fossi venuto a risolvere tutto in dieci giorni, così dopo puoi tornare a casa. Vuoi tutto subito, ma devi abituarti al fallimento.” Sorride sardonico Basel mentre parla con Yuval, che, avendo carta d’identità israeliana, può uscire dalla Cisgiordania e tornare a casa quando vuole.

I palestinesi sanno che la lotta è lunga ed estenuante e soprattutto sanno che al fallimento non ci si può arrendere. È proprio in risposta al continuo fallimento, alla totale impotenza, alla necessità di sopravvivere e di non accettare la propria morte civile e fisica che nasce qualcosa di nuovo. Nel terreno arido di Masafer Yatta, nelle grotte dove la popolazione si rifugia, nei cortili distrutti di un luogo in cui lo stato non arriva se non per reprimere, ogni giorno nascono nuove forme di solidarietà e di riproduzione sociale della vita, che hanno poco di individuale e tanto di collettivo. Dall’educazione dei bambini alla loro cura, dalla protesta alla costruzione di nuove infrastrutture, la comunità di Masafer Yatta si muove insieme, in un atto di resistenza non soltanto verso i propri colonizzatori, ma verso un sistema che organizza la riproduzione della vita in maniera miserabile e individualizzante.

È una resistenza pacifica che prosegue da decenni, e che dal 7 ottobre, come mostrano le ultime scene del documentario, si è fatta ancora più difficile. 

Ti esalti facilmente. Vorresti che tutto accadesse velocemente. È come se fossi venuto a risolvere tutto in dieci giorni”, dice Basel a Yuval, dopo le lamentele dell’amico sulle poche visualizzazioni ad un suo video. È così che uno dei protagonisti di questa storia ci chiama in causa: la lotta è totalizzante, estenuante e lunga. Tu cosa stai facendo per sostenerla? 

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