L’autunno delle nostre colpe
Mentre ragionavamo, in una delle animate riunioni della redazione, sul tema del nuovo numero di BILLY, a qualcuno è venuto in mente di verificare l’etimologia di “indagine”, parola a cui eravamo giunti partendo da quei concetti di colpa e di punizione che appaiono abitare molta produzione contemporanea, in diverse declinazioni, e che volevamo e vogliamo provare ad attraversare con il numero di novembre.
“Indagine” sembrava allora raccogliere maggior interesse e consenso come sintesi, o punto di partenza o momento di accesso, a possibilità piuttosto ampie di analisi. Abbiamo così scoperto che “indagine” deriva dal latino indago, composto da indu-, ossia «dentro», e dal tema di agĕre, vale a dire «spingere»: spingere dentro. La cosa ci è parsa già piuttosto significativa, ma, non contenti, abbiamo anche appurato, non senza un malcelato stupore, come, propriamente, indago indaginis indicasse, in latino appunto, l’azione di «spingere la selvaggina in un recinto con reti». Quindi un atto che indica una forza attiva, finalizzata a rinchiudere qualcosa in un luogo da cui non possa uscire.
Ma allora, ci siamo chiesti e ci chiediamo, in questo novembre che sa finalmente di autunno, tale atto, che appare anche brutale, che tipo di relazione intrattiene con il significato contemporaneo della parola? Dov’è quella parte relativa al percorso che un’indagine, da quanto istintivamente sappiamo, intraprende per appurare una o più verità? Forse che spingere qualcuno o qualcosa dentro un recinto da cui non possa uscire, sia un modo per circoscrivere un dato, una verità appunto, così che sia immobile e fruibile, contabile e consumabile, permettendo inoltre ai cacciatori di soddisfare anche, elemento a cui fa riferimento il termine «selvaggina», uno stato di necessità collettiva e di urgenza di consumo?
In un momento di post-verità come quello che viviamo, diviene evidente come la necessità collettiva e l’urgenza di consumo siano pulsioni (dis)umane che, nelle narrazioni in generale e in quelle audio-visive in particolare, inverano emergenze di conferma e d’identità, se non di pura esistenza. Il bisogno di attribuire colpe, di definire colpevoli, di individuare responsabili, in processi di significazione che distinguano chiaramente le vittime, è un bisogno forse ancestrale che trova oggi, nella disintermediazione contemporanea, nuove modalità di rappresentazione e nuove forme di ineluttabile giudizio, laddove il giudizio impedisce sì la comprensione ma schiera legioni di consenso, non solo in senso politico. Si tratta infatti, a ben pensarci, di una forma di controllo, di spingere qualcuno dentro qualcosa da cui non si vuole che esca, sia questo qualcosa un’identità, uno spazio o un ruolo, collettivo o meno.
È quindi certo una forma di desiderio, una tensione di possesso o di soddisfazione di un bisogno, un movimento tanto individuale quanto generale, tanto privato quanto pubblico e sociale, che a tratti deriva da necessità di comprensione, semplificazione o mera esigenza di castigo. E ciò ha medesima valenza anche quando siamo noi stessi i colpevoli, poiché la colpa è un poderoso veicolo di potere, la colpa, per parafrase Freud, ci mette al centro del quadro e della vita di coloro rispetto ai quali siamo colpevoli, anela alla punizione, desidera l’interesse e agisce la potenza di incidere e di non essere indifferenti, quanto piuttosto importanti. Meglio essere puniti che essere ignorati.
A novembre allora, se vi va, attraverseremo tutto questo, parlando di film, di serie e di altre perversioni, adottando un tema largo e fluido, permeabile e in movimento, con una consapevolezza di base, che poi è anche una domanda. Un’inquadratura è «un’opportuna limitazione del campo di presa», dice la Treccani; ma cos’è questa limitazione se non uno spingere la selvaggina in un recinto composto dai bordi stessi dell’inquadratura, per ottenere un determinato effetto dalla disposizione di ciò che abbiamo isolato — colpevolizzato? Verificato (che etimologicamente significa fare vero)? — dal resto e che osserviamo e permettiamo di osservare al pubblico?
Eppure, e quindi siamo qui, l’audiovisivo è in grado di stabilire un dialogo tra ciò che è dentro il recinto e ciò che ne sta fuori, e tra tutto questo e ciò dentro quel recinto l’ha spinto, perciò rappresenta un accesso privilegiato (quando non è manipolatorio) non solo al nostro tempo e a quello passato, ma anche ai nostri territori interiori e al buio e ai terrori che a volte vi albergano.