In “Io Capitano” il cinema di cui abbiamo bisogno
«Io Capitano» è un grido di liberazione, più che di libertà. Arriva catartico nel film, intonato ripetutamente dal protagonista alla fine del suo viaggio verso l’Europa, quasi a liberare il pubblico dal peso del senso di colpa che lo sta divorando in sala da quasi due ore, e da quella paura di assistere al peggiore degli epiloghi – così noto e così frequente nella realtà -, il naufragio, la morte in acqua, il fallimento dell’Occidente.
Con Io Capitano Matteo Garrone ha raccontato una storia come tante, ma solo per chi vive ai margini del mondo. La storia di un viaggio – geografico, metaforico e interiore – tra le difficoltà ai limiti dell’immaginabile, che parte da Dakar e arriva in Sicilia. Due ragazzi di 16 anni, Seydou e Moussa (Seydou Sarr e Moustapha Fall), spinti dalla freschezza dei sogni giovanili, sentono che è arrivato il momento di partire per l’Europa e cercare un tempo e un luogo altro dove materializzare speranze e ambizioni. L’ingenuità adolescenziale non gli darà modo di considerare i rischi e i pericoli di un viaggio folle: partiranno e come ogni storia che si rispetti, dovranno fronteggiare gli ostacoli di un percorso che, tappa dopo tappa, acquisisce le fattezze di una discesa negli inferi. L’attraversamento del deserto, le persquisizioni brutali, i campi libici di detenzione e le torture, la schiavitù, la perdita dei compagni di viaggio sotto i propri occhi, il mare da attraversare prima che sia lui a farlo con te. Seydou e Moussa sono disposti a tutto questo e intraprenderanno un viaggio verso l’Italia e verso un precocissimo mondo adulto.
Io Capitano è un film che ha messo in dialogo elementi del cinema reale con componenti fiabesche e oniriche tipiche dello “stile-Garrone”, bilanciati tra loro senza sbavature o eccessi. Scritto senza inciampare in alcuna forma retorica, privo di paternalismi e forse, proprio per questo, si rivela in tutta la sua forza dirompente. Fa riflettere senza adoperare moralismi, si aggrappa alle pareti dello stomaco senza eccedere nella crudezza delle scene, commuove senza romanzare. A parlare, infatti, è la storia – scritta a più mani partendo da vicende reali – nella sua semplicità e nella sua drammaticità: un ragazzo che diventa improvvisamente adulto nel momento in cui decide di partire, perdendo il beneficio dell’ingenuità giovanile tappa dopo tappa, e caricandosi della responsabilità di sopravvivere e di far sopravvivere gli altri. I colpi inferti dai trafficanti di esseri umani (le perquisizioni nel deserto, l’accanimento nella prigione, l’inganno dei mafiosi libici) saranno soppesati dal profondo senso di solidarietà che emerge in una comunità di uomini e donne accomunati dal dolore e dalla speranza, senso di solidarietà che salverà Seydou più volte e che permetterà a Seydou di portare in salvo i suoi compagni di viaggio.
Ad affiorare dal film non è solamente la sofferenza fisica di “un’odissea contemporanea”, ma anche il rapporto con le proprie radici, recise, espiantate, preservate. La forza e il coraggio di lasciare i propri affetti e la propria casa, la perseveranza nel conservare lungo il viaggio quel rapporto fraterno che lega i due protagonisti, partiti insieme, poi divisi, poi nuovamente ritrovati.
C’è poi la fotografia del film, calzante e mai troppo estetizzata, che nel suo alimenta quel senso di smarrimento e piccolezza che si avverte nel mezzo di una situazione senza vie d’uscita a vista: le riprese aeree sul deserto arido del Sahara, e poi quelle sul mar Mediterraneo di un blu intransigente, entrambi scalfiti dalle orme umane che si perdono, piccole, in una vastità che la mente fatica a immaginare.
I dialoghi in dialetto wolof – essenziali – che in un paio di scene si trasformano in un concerto frastornante, i toni che crescono mano a mano che aumenta la tensione (il momento di crisi in barca stordisce e restituisce un senso di annegamento). A garantire l’autenticità di un insieme che risulta coerente in tutto, anche la colonna sonora (vincitrice a Venezia 80), grazie al lavoro di Andrea Farri con i due protagonisti, che mantiene molto bene il ritmo delle peripezie della storia, facendo propria la contemporaneità del rap.
Forse Garrone riesce nel suo film proprio perché sposta il punto di vista completamente al di qua del confine, lascia parlare le storie degli altri con la loro lingua, intonazione, con i loro suoni. Cerca – probabilmente riuscendoci – di non alterare e di conservare la naturalezza di un’interpretazione autentica. Studia e assemblea molto bene tutti gli elementi del film, restituendo al grande pubblico un’opera essenziale.
Io Capitano è, dunque, un film intimo, di formazione e politico perché racconta un pezzo di mondo che fatichiamo a vedere nella sua interezza, e lo fa attraverso gli occhi di due giovani ragazzi con emozioni, paure e sentimenti universali. L’Europa, che in questo racconto è l’oggetto del desiderio, è una presenza fuoricampo che si intravede solo nei minuti finali del film, quando il profilo delle montagne si palesa all’orizzonte su un concerto di grida di gioia. È un film politico, «quasi impossibile» citando Camilli, perché una volta terminato lascia addosso quella rabbia tipica di quando si realizzano diseguaglianze e ingiustizie. Un film politico perché, alla fine di tutto, l’unica cosa che riusciamo a chiederci è quando è diventato così semplice abituarsi a tutto questo.