Nessun futuro, solo presente
“[…] il Tempo non è mai iniziato. Il Caos non è mai morto. L’Impero non venne mai fondato. Non siamo adesso e mai siamo stati schiavi del passato od ostaggi del futuro.”
T.A.Z. – Zone temporaneamente autonome (1991) – Hakim Bey
Viviamo nel presente, il nostro mondo è oggi, ora, in questo momento, allora domandarsi del futuro a cosa serve? Pochi periodi come questo però schiacciano, elasticizzano e slabbrano il presente, rendendolo un piano infinito in cui camminare e muoversi.
Il piano però, per quanto Euclide possa raccontarcela, non può essere infinito o, meglio, non vogliamo vederlo infinito. Vogliamo arrivare ai suoi confini e cadere in un futuro inimmaginato e inimmaginabile; per farlo però c’è bisogno di programmare il procedere verso il futuro, dovrebbe nascere in noi quest’esigenza di spingerci ai confini, di fare il più classico dei classici salti nel vuoto e affrontare quel futuro-divenuto-reale.
Siamo in una fase di stallo, siamo in una fase post-pandemica (anche nel cinema come ci ricorda il nostro Direttore Matteo Lolletti). Incapaci di muoverci abdichiamo ogni giorno alla nostra volontà di pensare il futuro.
«Il futuro va costruito» ci dicono Alex Williams e Nick Srnicek ne Il Manifesto accelerazionista. Va costruito, e questo (forse) non è ancora il momento giusto per porre la prima pietra, perché «il capitalismo neoliberista (del quale la pandemia è un evidente segno, aggiungo) lo ha demolito, riducendolo a una promessa al ribasso di maggiori disuguaglianze, conflitto e caos. […] Dobbiamo aprire il futuro, ancora una volta, sciogliendo i nostri orizzonti verso le universali possibilità del Fuori».
Il Manifesto accelerazionista, come dice Valerio Mattioli nella postfazione all’edizione italiana, è stato frainteso. O meglio è stato frainteso il concetto di accelerazionismo, visto come accelerazione al tecnocapitalismo in cui «le ingiustizie, le distorsioni, le prevaricazioni portate in dote da un sistema politico-economico sempre più spietato e disumano, non vanno frenate; vanno semmai portate alle estreme conseguenze, cosicché il sistema crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni interne». Ovviamente non è così, bensì, come scrivono i due filosofi: «l’accelerazionismo è la convinzione di fondo che le capacità tecnologiche possano e debbano essere affrancate dai limiti imposti dalla società capitalistica, e spinte oltre. Il movimento per il superamento dei nostri vincoli attuali non dev’essere solo una lotta per una società globale più razionale», per spingere l’umanità «verso un’epoca di padronanza di sé collettiva, e verso il futuro realmente altro che essa implica e prefigura. Verso il completamento – non l’accantonamento – del programma di autocritica e di autocontrollo propugnato dall’Illuminismo».
Il Manifesto accelerazionista esce nel 2013, ma vent’anni prima un movimento aveva provato a ragionare sul presente e quindi sul futuro, spingendosi oltre – o uscendo dai – limiti del capitalismo. Più che di movimento si dovrebbe parlare di cultura, di controcultura, l’ultima per citare Tobia D’Onofrio. È la rave culture, nata a fine anni ottanta e diffusasi in tutti gli anni novanta fino ai nostri giorni.
La rave culture eredita dal movimento punk lo slogan No Future e lo inserisce in un immaginario cyberpunk, dai new age traveller il nomadismo per trasformarlo in carovane musicali, dalla dub e dagli impianti audio giamaicani importati in Gran Bretagna la filosofia del Do It Yourself aumentandone la portata dimensionale e sonora, trasformandoli in veri e propri muri di casse.
Nessun futuro per il capitalismo neoliberista all’interno della rave culture. I primi freeparty rappresentano il fenomeno più lontano da quello che, invece, fuori è l’industria del divertimento. Il dj non si sa realmente chi sia, nascosto dietro quel muro di casse, l’unico elemento veramente consistente e che si fa concreto grazie alla techno è proprio il suono. La fisicità del suono assurge a entità spirituale per la quale è necessario un rito danzante, dionisiaco, cadenzato che porta alla transe collettiva (determinante in questo è il libro di Lapassade, Dalla sciamano al raver). Il dj quindi rappresenta soltanto una figura accessoria, un camerlengo intento a badare al (dis)ordine del freeparty.
Il freeparty però è innanzitutto una riappropriazione dello spazio, fisico e metaforico. La creazione della Zone Temporaneamente Autonoma significa riprendere possesso del presente e spingere tutte le persone partecipanti al rito collettivo verso il futuro (un futuro che può durare giorni). All’interno del freeparty esiste(va?) una sorta di uguaglianza e di solidarietà perché esisteva l’ecstasy (filo comune a tutti i primi freeparty prima dell’arrivo della ketamina) che riusciva a mettere tutti d’accordo (alcune persone raccontano che anche i fascisti che riuscivano a entrare nella TAZ (con la richiesta esplicita di girare al contrario il bomberino) alla fine abbandonavano le mire aggressive per unirsi al rito collettivo.
Il freeparty del resto è antifascista per antonomasia, è forse l’unica utopia socialista che effettivamente si è realizzata e continua a realizzarsi nonostante la continua repressione. Insomma, se dal 1994 anno del Criminal Justice and Public Order Act che criminalizza il rave, cercando di limitare quindi gli effetti della rave culture. Si legge:
This section applies to a gathering on land in the open air of 100 or more persons (whether or not trespassers) at which amplified music is played during the night (with or without intermissions) and is such as, by reason of its loudness and duration and the time at which it is played, is likely to cause serious distress to the inhabitants of the locality
È chiaro che non è servito a niente. La repressione ha creato un altro fenomeno: i traveller, raver che sponstandosi con il loro muro di casse e il furgone/camper hanno invaso le strade, le città e le campagne europee e non solo con la techno.
Il futuro perciò per quanto si tenti di bloccarlo, per quanto si tenti di metterlo alle strette o di rinchiuderlo nel passato, strariperà e si farà presente. Si travestirà da movimento, da cultura, da persone, da manifesto per esistere. Non riusciamo a vederlo perché come un trickster ci inganna, ci fa credere che nessun futuro sarà qui con noi, che esisterà sempre e solo il presente. Ma qui e oggi i semi del futuro ormai sono stati piantati.
Forse sono stati piantati nel 1988 in quella che è da tutti considerata la second summer of love e dalla quale tutto è nato.