Una lunga pagina bianca
Forse, dietro la difficoltà del cinema contemporaneo di immaginare e narrare un futuro, si celano semplicemente le stesse ragioni che rendono complicato riempire di parole una pagina bianca. Forse. La sensazione – ché chiamarla tesi potrebbe suonare troppo presuntuoso – è quella che la narrazione non riesca a figurarsi l’immagine di un qualsiasi futuro che non segua il solco tracciato da un presente, o addirittura, da un passato a cui non si riesce a guardare se non in termini di nostalgia o di nostomania.
Le ragioni che hanno contribuito a questo tipo di cecità possono essere innumerevoli, almeno quante la mitologia possa raccontarne sulla morte di Orione, e di certo non può essere considerato un semplice fattore la contingenza storica, politica e geo-politica in cui la narrazione contemporanea si trova a dover tessere le trame di personaggi che risultano bloccati e irrisolti, se non irrimediabilmente disillusi o sconfitti.
Se i traumi del passato sono stati seminali per un certo tipo di cinema ciò che accade ora non sembra essere altro che una semplice esposizione del trauma, priva di qualsiasi elaborazione: se dopo gli attentati alle torri gemelle, o dopo il disastro di Fukushima, il cinema hollywoodiano e quello orientale erano riusciti a incanalare la rabbia e il lutto attraverso la narrazione (sia scritta che visiva) e a superare il trauma proiettando le storie e i personaggi in un futuro che non si accontentava di essere una rappresentazione del presente, quello che oggi il cinema si limita a fare, dopo la pandemia, è semplicemente quello di metterla in scena, inserirla nella narrazione come un evento, senza alcun tipo di (re)visione.
A differenza di quanto successo dopo gli attentati dell’11 settembre (negli Stati Uniti escono La 25ª ora e The Village) e dopo il disastro di Fukushima (in Giappone escono Himizu o The Long Excuse) nessuna delle produzioni viste finora si può definire squisitamente post-pandemica o post-traumatica.
Anche il prodotto più atteso e incensato degli ultimi mesi, la serie “tradotta” da The Last of Us e ambientata un ventennio dopo una pandemia, ci racconta di personaggi, di società e di un mondo ancora bloccati dai traumi e dai lutti, incapaci di superarli, abitare uno stallo perpetuo in cui la significazione del loro presente è possibile solo attraverso la continua rivisitazione di un trauma che non prevede la sua risoluzione e che quindi, non prevede nessun tipo di pianificazione o di ricostruzione del futuro.
Lo stallo e l’immobilismo (non solo fisico, in senso stretto) a cui ci ha abituato la pandemia ci ha costretti al ricordo (perché quando ci si ferma si ricorda, e quando si ricorda o si magnifica o si disprezza) e alla sua mistificazione, tanto che il passato è diventato il protagonista di alcuni lavori di grandi registi quali Spielberg (The Fabelmans) o Branagh (Belfast), in cui quel passato traccia una linea intima e personale con il presente, senza riuscire a guardare oltre.
Il futuro diventa quindi qualcosa di inimmaginabile, qualcosa che si subisce senza poter avere la consapevolezza o la forza per scriverlo (o riscriverlo), così da diventare specchio generazionale di un’epoca in cui trovarsi una pagina bianca sembra essere più un’opportunità inutile che una situazione di privilegio perché si ha la sensazione che nulla possa essere non solo migliore di ciò che i nostri padri ci hanno lasciato, ma neppure diverso, figuriamoci sbagliato, comunque mai nostro.