Copenhagen Cowboy
Regia 4
Soggetto e sceneggiatura 4
Fotografia 4
Cast 4
Colonna sonora 4

Se Too Old to Die Young (2019, Prime Video) Nicolas Winding Refn l’ha definì non una serie ma «un film di 13 ore», ci permettiamo di definire Copenhagen Cowboy (2023, Netflix) come un’esperienza visiva di 6 ore, perché ancora una volta il regista danese decide di stravolgere la concezione di serialità con un lavoro in ..

Summary 4.0 favoloso

Copenhagen Cowboy

Se Too Old to Die Young (2019, Prime Video) Nicolas Winding Refn l’ha definì non una serie ma «un film di 13 ore», ci permettiamo di definire Copenhagen Cowboy (2023, Netflix) come un’esperienza visiva di 6 ore, perché ancora una volta il regista danese decide di stravolgere la concezione di serialità con un lavoro in cui la sua impronta si sente fortemente tra tempi dilatati il più possibile, luci al neon costanti e la costruzione di un mondo artefatto, ultra ricercato, dove i confini tra la realtà e il soprannaturale sono sottilissimi e finiscono per interscambiarsi.

Ed è dentro questo mondo che si muove la protagonista Miu (Angela Bundalovic), una figura dalle fattezze androgine, ma vagamente femminili, che ha passato gli anni della sua vita a essere venduta come “portafortuna”, in quanto dotata di speciali poteri, e che decide di ribellarsi allo sfruttamento subìto intraprendendo un percorso di giustizia e vendetta che la porta a scontrarsi contro la malavita serba, albanese e cinese di Copenhagen, quella malavita che Refn aveva già raccontato nella trilogia di Pusher (1996, 2004 e 2005) e a cui decide di ritornare.

Miu è un personaggio misterioso, su di lei sappiamo e sapremo poco, al punto che lo spettatore sarà libero di farsi una sua libera idea su chi sia, non parla molto, si muove con la mani calate nelle tasche e con la stessa monoespressione di Ryan Gosling in Drive (2011), non indossa un giubbotto di pelle, ma, da eroina quale è, una tuta blu (che non è quella attillata dei supereroi Marvel).

La sua è una lotta contro un mondo maschilista (rappresentato dai malavitosi) in cui vi sono un boss a capo di un giro di prostitute balcaniche, un gangster cinese perseguitato da terribili emicranie, un giovane assassino proveniente da una famiglia di ricchi psicopatici che vive l’omicidio come una performance artistica, un avvocato corrotto e uomini che neanche parlano, ma grugniscono come maiali, quegli stessi maiali utilizzati per mangiare i corpi degli uomini uccisi dai gangster.

Non a caso i pochi personaggi positivi sono donne, anche se una dicotomia netta non c’è, anzi molte di loro sono spietate quanto gli uomini ed è proprio un’altra donna (vestita di una tuta rossa) la grande antagonista di Miu e lo scontro tra le due potrebbe essere la chiave di una eventuale seconda stagione.

Presentata in anteprima al Festival del cinema di Venezia, Copenhagen Cowboy non è e non vuole essere una serie per tutti, a Refn non interessa narrare una storia lineare, quanto mostrarla attraverso dei tableau vivant, dove la forma è anche sostanza, nei quali troviamo rappresentate scene di arti marziali, western e fantascienza con echi surreali che vanno da Jodorowsky a Lynch che, accompagnate dalla colonna sonora di Cliff Martinez, investono la mente dello spettatore di visioni perturbanti e irreali come fosse sotto trip.

Ecco che allora il regista danese ci offre una serie coinvolgente e surreale, non curante di un pubblico mainstream, ma alla ricerca di persone disposte a una “esperienza visiva” come fossero dentro a un museo d’arte contemporanea o a una sfilata di moda.

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