Esterno Notte
A vent’anni di distanza Marco Bellocchio torna a raccontare l’affaire Moro in linea di continuità con il suo precedente lavoro, Buongiorno notte, lasciando a una realtà alternativa il compito di tracciare l’ipotesi di una salvezza che all’alba del 9 maggio 1978 avrebbe permesso al presidente della Dc di uscire indenne dalla prigione del popolo. Nel falso frammento in flash forward che inaugura Esterno notte Moro è dunque in ospedale, in una anonima stanzetta, di fronte alla triade Zaccagnini/Cossiga/Andreotti, vivo e restituito alla libertà per “generosità delle Brigate Rosse”. Un ribaltamento della Storia che sgombera immediatamente il campo dal grado di aderenza che si vuole imprimere a questa ricostruzione: il Cinema, mi verrebbe da dire, si posa sui fatti, li adopera certamente, li scandaglia, ma resta libero di immaginare altro, di farsi possibilità, di credere come fa Tarantino in C’era una volta a Hollywood, e precedentemente in Bastardi senza gloria, che in un racconto nulla sia immutabile, ma che anzi raccontare voglia significare aprire porte chiuse, provare ad attraversarle, magari restare per un attimo oltre la soglia per poi tornare indietro e richiudersi tutto alle spalle.
E di porte, in Esterno notte, ce ne sono tantissime. Per lo più serrate nel loro segreto: quella della prigionia di Moro, appunto, ma pure quella di via Gradoli oltre la quale per pudore o pavidità le forze dell’ordine non forzano l’ingresso, lasciando ai brigatisti la possibilità della fuga. Nell’universo poetico di Bellocchio le porte sono evidentemente varchi verso l’altrove, essenziali per portare avanti il suo inesausto dialogo con l’aldilà e con i corpi e le vite che dall’altra parte spingono per essere evocati e rimessi al centro della scena. Ma sono anche la prova fisica (nella loro impenetrabilità) di quanta forza bruta possano esercitare quelli che hanno la chiave per aprire e rimettere il mondo in comunicazione, o che, pur non stringendola in mano, possono essere certi di parlare senza contraddittorio. Il corpo (rin)chiuso è già morto. E se non è morto è ridotto a uno stato tale che il delirio solo può guidarlo: le sue parole sono un confuso fraintendimento alle quali va dato un peso relativo. Moro pazzo?, scrivono i giornali. Le sue parole, le sue lettere, non sono che farneticazioni? Pazzo come il fratello di Fabio Stolz rinchiuso nella soffitta di una villa di Venezia in Anima persa di Dino Risi, il manifesto del film che campeggia al principio della serie nel cinema di fronte al negozio d’armi assaltato.
La sproporzione di quel che accade in via Fani il 16 marzo 1978, l’impossibilità di ricondurne la percezione a una aderenza fisica è ben illustrata da Andrea Pomella in un passaggio del suo recente il Dio disarmato che si sofferma proprio sulla topografia del luogo dell’agguato: “L’evento ha una portata enorme, giganteggia nella linea cronologica della storia italiana dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. Le dimensioni fisiche del luogo in cui accade non sono altrettanto grandi… É come se il nostro cervello si rifiutasse di accettare che un fatto tanto grande si sia svolto in una strada tanto insignificante. É una questione di aspettative”. E non solo. C’è l’elemento del tempo. L’attacco dura tre minuti, e la velocità dei fatti, così inafferrabile, fa in modo che quello stesso evento continui ad accadere secondo un meccanismo che adopera la reiterazione come espansione cronometrica. Bellocchio ha dunque in mano una vicenda che deborda lo spazio fisico e sconquassa la linea temporale: per affrontarla decide di lavorare sull’anatomia di un istante tanto cara a Javier Cercas, dando voce alle vite differenti che si intersecano in quell’incrocio, seguendone le direttrici e facendo il modo che entrino in collisione il meno possibile. Ognuno deve arrivare in fondo alla storia da solo.
E allora Esterno notte è un coro di voci individuali che tenta di ristabilire l’equilibrio tra il singolo (il sequestrato, Aldo Moro) e il resto del mondo. Per farlo lo stesso corpo-stato viene smembrato e spezzato in tre tronconi: testa, stomaco, cuore. Ogni parte, va da sé, è agonizzante, al limite della follia, spompata. C’è la ciclotimia di Cossiga che non distingue le voci interiori da quelle intercettate dai servizi per 55 giorni; ci sono le evacuazioni incontrollate di Andreotti, le sue ossessioni digestive; c’è il corpo piegato del Papa che non sa più stringere in mano il più piccolo crocifisso senza cadere a terra per il peso. Sono loro i carnefici? La loro inadeguatezza, le loro incertezze, il loro cercare conforto nel grigio esercizio del potere, ne sono le prove finali e inappellabili? Sarebbe semplicistico rispondere affermativamente se non fosse che Bellocchio aggiunge alla platea del complesso di colpa – naturalmente – il commando brigatista (usando la parabola della Faranda come esempio di incertezza e dubbio), – sorprendentemente – Eleonora Moro, la cui dignitosa forza di volontà, il cui amore per l’uomo che ha sposato, flirta con la stanchezza di una vita in due, con il suo sfogo in confessionale interrotto dal ronzio degli elicotteri che sorvolano la città un attimo dopo l’evento.
A pensarci bene Esterno notte raccoglie l’approssimarsi delle tenebre con un lampo di confidenziale tenerezza (‘buongiorno‘) riconoscendo in quel buio residuale il momento ultimo di pace (è all’alba che si compie il massacro della scorta; nell’alba di un garage di via Montalcini che avviene l’esecuzione), ammettendo, al contempo, che nulla, poi, potrà mai essere uguale a prima (e quindi un prisma, una distanza, la trasparenza di un vetro per guardare fuori, all’ ‘esterno‘). Bellocchio è quel prisma? É in quel punto, tra via Stresa e via Fani, che la militanza politica del regista trova un’opposizione, s’incrina in un’incertezza? Forzando il senso potremmo allora azzardare un’ulteriore ipotesi e provare a spiegare l’ossessione ventennale di Bellocchio per il caso Moro come un punto nodale del suo cinema personalissimo. In questo senso potremmo riconoscere proprio nell’autore piacentino l’ultimo carnefice di questa storia. Quello che troppo preso dalle faccende politiche perde di vista l’umano in un gioco di sovrapposizione tra Aldo Moro e il fratello suicida Camillo, entrambi trascinati via dalle dinamiche del contesto e dalle ragioni di una lotta. Giusta o sbagliata, adesso è solo il rimpianto di aver perso qualcosa. Marx avrebbe potuto aspettare, forse. Ma a chi appartengono allora, Gli occhi, la bocca? Cosa non vedranno più e cosa non potranno più dire? O forse invece continuano a parlare e a vedere, grazie al cinema, oltre il silenzio muto che segue i tre minuti di spari forsennati, in quel mattino di marzo del 1978.