Irma Vep: la vita imita l’arte (?)
Una celebre frase di Woody Allen ci ricorda che «è assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla televisione».
Per quanto possa sembrare definitiva e inattaccabile, nella sua cinica semplicità, è una frase che innesca una spirale di sillogismi e domande a cui difficilmente si associano risposte altrettanto inattaccabili. Chi edifica l’immaginario collettivo attraverso cui strutturiamo le nostre realtà? É forse la tv (e per estensione qualsiasi mezzo si ponga come obiettivo quello di rappresentare il quotidiano)? É il cinema (o in generale qualsiasi forma d’arte) a intercettare e tradurre le istanze del reale, oppure é l’artista a stabilire i confini dei nostri desideri? In definitiva: è la realtà che ispira l’artista o è l’artista a ispirare la realtà?
E ancora, per rendergli omaggio a pochi giorni dalla scomparsa, Jean-Luc Godard diceva: «ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema attraverso la realtà». Ma anche in questo caso i confini tra medium e messaggio diventano effimeri e sottintendono una contaminazione dell’uno sull’altro che si concretizza, come in questo caso, in una differente visione della realtà mutuata dal cinema ma, similmente, in una diversa percezione del cinema e del mezzo grazie a un’idea della realtà che è mutata. Si può quindi arrivare a dire che il medium è il messaggio, parafrasando McLuhan (se teniamo conto del fatto che il contenuto ha una relazione quasi simbiotica con il medium), o quantomeno che entrambi agiscono, interagiscono e violano i campi semantici l’uno dell’altro. Come sarebbe stato Bande à part se Godard lo avesse girato nel periodo della sua vita in cui vedeva il cinema attraverso la realtà? E un film come Notre musique sarebbe mai esistito nel periodo in cui vedeva la realtà attraverso il cinema? Più in generale: a distanza di vent’anni come avremo rielaborato un ricordo? La nostra percezione lo renderà diverso o meno vero? Lo racconteremo così come è accaduto o la nostra nuova visione della realtà ne modificherà i termini e la portata?
Questa labirintica e lisergica introduzione è, nella sua struttura, molto simile al tipo di approccio con cui Olivier Assayas ha deciso di riprendere in mano il suo Irma Vep del 1996 per trasformarlo nella serie televisiva Irma Vep – La vita imita l’arte: una lunga e appassionata analisi, non sempre lucida e scorrevole, di quello che è il potere del mezzo cinematografico, del suo utilizzo e del suo potenziale, attraverso un percorso fatto di scatole cinesi al cui interno, sullo stesso piano narrativo e meta-narrativo, coesistono realtà e rappresentazione della realtà.
É sulle basi di queste premesse che Irma Vep – La vita imita l’arte non può essere catalogato come una semplice operazione di mercato in cui, come spesso accade, si rinnova un franchise di sicuro successo col solo intento di mercificare il prodotto. Certo, è anche questo, perché il cinema e la televisione sono innanzitutto delle industrie e come tali sottostanno a delle dinamiche di mercato, ma Assayas rilegge la propria opera (che a sua volta rileggeva un’icona del cinema francese dell’inizio del secolo scorso) rileggendo, in primo luogo, il cinema stesso e le rivoluzioni che lo hanno cambiato nel corso di quasi trent’anni ma, soprattutto, rileggendo non solo la sua figura di artista che ha attraversato questi cambiamenti, ma anche la sua figura di uomo che da questi cambiamenti, inevitabilmente, è stato attraversato. Irma Vep – La vita imita l’arte si colloca in quel cortocircuito meta-narrativo in cui, attraverso un medium si tenta di raccontare il medium stesso e di come l’atto stesso di “guardare” possa modificare lo “sguardo” dello spettatore.