Flashforward – Una pagina da (ri)scrivere
L’intera popolazione del mondo ha subito un black-out lungo poco più di due minuti durante il quale ognuno ha avuto un flashforward, una proiezione di sé stesso in un determinato momento del proprio futuro: potrebbe essere il soggetto di una promettente serie televisiva (e in effetti lo è), oppure è semplicemente quello che è successo a me durante l’ultima riunione di redazione quando ho avuto la visione di me stesso davanti a uno schermo bianco, il cursore lampeggiante a ricordarmi che dovrei riempire degli spazi vuoti, a chiedermi cosa (e perché) scrivere di una serie uscita tredici anni fa.
In realtà cercare di analizzare uno dei flop più rovinosi della serialità televisiva può essere un esercizio utile, se non necessario, per capire come sia cambiato lo storytelling delle serie TV complesse negli ultimi anni e come si siano modificati i rapporti di utilizzo dei paratesti che nell’ultimo ventennio hanno caratterizzato l’esperienza di fruizione espansa del prodotto audiovisivo seriale. Le ragioni che hanno determintato il fallimento di una serie ambiziosa come doveva essere Flashforward sono, probabilmente, le stesse che ne avrebbero dovuto decretare il successo e le stesse per cui, negli anni successivi, la serialità complessa ha mutato la sua forma narrativa (e il suo bagaglio di stilemi e tecniche) e alterato il livello partecipativo dello spettatore attraverso l’esperienza transmediale: uscita nel 2009, Flashforward avrebbe dovuto raccogliere l’eredità (in termini di aspettative e di pubblico) di Lost utilizzando gli stessi modelli narrativi caratterizzati da una costruzione non lineare della temporalità e dalle stesse dinamiche per cui era più importante dare movimento alla storia piuttosto che ai personaggi o alla loro capacità di fornire delle chiavi interpretative filosofiche, etiche e morali che un plot come quello di Flashforward poteva cercare di affrontare.
Più interessante che cercare di capire quali siano state le cause di un fallimento è cercare di analizzare come, soprattutto dopo tanti anni, quello stesso fallimento, abbia contribuito a cambiare le nostre percezioni e le nostre abitudini. Probabilmente è un po’ troppo genereso attribuire al fallimento di Flashforward dei meriti o addirittura bollarla come serie spartiacque, ma dalla sua cancellazione il mondo dello storytelling seriale ha rivoluzionato l’approccio al racconto, il modo di offrire il prodotto audiovisivo e il dialogo con il pubblico: dopo il 2010 le emittenti televisive decidono di rinunciare all’iper-serialità producendo quasi esclusivamente prodotti con un numero di puntate dimezzato rispetto agli standard precedenti, oppure virando l’offerta su una struttura antologica e quindi conclusa, riuscendo in questo modo a limitare le perdite produttive date dal dover chiudere una stagione da ventiquattro episodi.
Questo stratagemma ha anche concesso la possibilità agli sceneggiatori di dedicare più attenzione allo sviluppo dei personaggi e alla loro relazione con le complicazioni della realtà, alimentando creativamente il processo di scrittura, spostando il focus dall’azione alla riflessione su temi più intimi e universali (The Leftovers, True Detective, solo per citare due esempi), relegando l’influenza del pubblico nel processo decisionale solamente alla fine della stagione, soprattutto dopo l’avvento delle piattaforme streaming e alla scelta sempre più diffusa di rilasciare il prodotto in blocco permettendo il bingewatching.
La cancellazione di Flashforward, per quanto allora ci abbia fatto soffrire, ci ha insegnato quello che avremmo desiderato, quello che non saremmo stati più disposti ad accettare e quello che saremmo diventati.