Flee
«È il mio passato, non posso sfuggirgli e non voglio farlo».
Una dichiarazione d’intenti così dolorosa e che si porta dentro una verità talmente scomoda che, a rifletterci bene, si fa fatica a respirare.
Quella di Amin, protagonista di Flee, documentario animato di Jonas Poher Rasmussen, è una storia come tante altre, purtroppo. Perché quella delle migrazioni clandestine è una realtà che abbiamo visto e sentito tante, troppe volte, anche se, evidentemente, non abbastanza. Non abbastanza da poter rendere veramente umane queste storie, ché i reportage, i documentari, le immagini e le testimonianze sono talmente tante e così struggenti da farci chiudere gli occhi, un po’ come fa lo stesso Amin mentre racconta e ricorda il suo passato.
Jonas Poher Rasmussen, allora, prova a raccontarci questa storia come tante da altri punti di vista, senza cadere nella pietizzazione che questo tipo di storia spesso richiama e lo fa attraverso un linguaggio che tradizionalmente non è associato al cinema del reale: l’animazione.
Flee mette al centro della narrazione la difficoltà di affrontare e condividere il proprio passato, la difficoltà di tenersi dentro un segreto ingombrante, la difficoltà di negare a sé stesso la propria verità. Mentre Amin sfoglia il diario in cui ha scritto la propria storia appena arrivato in Danimarca dice: «non riesco nemmeno a leggere la mia calligrafia». Per tutta la sua vita Amin ha dovuto fare i conti con un passato che non gli apparteneva, con una storia scritta da qualcun altrǝ, vivendo con un segreto inconfessabile e con il peso di questa responsabilità sulle spalle. Da bambino gli era stata negata la conoscenza di suo padre, per anni aveva dovuto nascondere il suo orientamento sessuale e, una volta trovata una strada verso la libertà, si è ritrovato a negare la sua stessa identità e le sue origini anche alle persone più care.
Quando racconta alle autorità danesi il percorso che l’ha portato a Copenhagen, Amin confessa – al regista e suo amico, il primo a cui decide di rivelare interamente il proprio passato – che era «sorpreso di piangere per qualcosa che non è vero». E, per quanto plausibile e realistica fosse quella storia, ripeto quella storia come tante, Amin piangeva perché forse consapevole che quel momento rappresentava uno spartiacque tra un prima – reale e tangibile – e un dopo – inventato e ingombrante.
Perché, alla fine, ciò che conta, per chiunque, è essere vistǝ per chi si è veramente, perché sembra essere l’unico modo per fare il primo passo verso l’accettazione di sé.
E allora dovremmo raccontare ancora moltissime di queste storie, per far sì che quelli al margine smettano di essere solo echi per diventare, finalmente, voci udibili e immagini visibili.