Purple Sea
È una bella giornata
il sole splende
il mare è di un blu vivo
È una frase che torna spesso nelle mattine d’estate, sulle coste del Mediterraneo dove la gente consuma le sue vacanze tra spiagge chiassose e acque trasparenti. Letto così, tra le righe traspare una presunta serenità, quella tipica di una routine che sembra non avere intoppi davanti a sé. Ma sono anche le prime parole che Amel Alzakout pronuncia sulla scena iniziale di Purple Sea – il documentario scritto insieme a Khaled Abdulwahed – mentre cerca di assestare la videocamera waterproof che riprenderà un naufragio intero al largo dell’isola di Lesbo.
Purple Sea è il racconto per immagini di una tragedia che il Mar Mediterraneo conosce fin troppo bene ma alla quale non è ancora riuscita a porre rimedio. È il 2015, siamo tra la costa turca, Bektas e l’Isola di Lesbo, su un barcone partito da Istanbul e diretto verso le coste greche alle quali non approderà perché il naufragio anticipa e ne impedisce l’arrivo. Amel Alzakout è su quel barcone quando gli scafisti lo abbandonano alla totale deriva, lasciando i migranti tra le onde del Mediterraneo in attesa dei soccorsi. Tra le poche cose che la filmmaker ha portato con sé, c’è una videocamera waterproof agganciata al suo polso che riprenderà le quattro ore successive.
Per 67 minuti lo spettatore vedrà la genesi di una tragedia che si consuma sott’acqua: il susseguirsi di immagini che riprendono gambe e braccia muoversi disperatamente per restare a galla, i lacci delle scarpe che fluttuano lenti, i giubbotti di salvataggio che sfregano contro la pelle producendo un rumore soffocante, e che invadono il campo visivo con il loro arancione catarifrangente. Nelle inquadrature entra prepotente il caos tipico dei momenti in cui vita e morte giocano una partita tutta loro, non ci sono volti ma solo stralci di corpi in movimento. Il racconto della tragedia sulle immagini scorre lungo due vie: il rumore ovattato di quello che succede a galla – fischi e grida senza tregua che si sovrastano e si fondono in modo penetrante – e le parole di Amel in un racconto cadenzato che conserva la pacatezza di una preghiera laica, che segue tutt’altro ritmo. La sua voce narrante compensa la frenesia delle immagini con il racconto del suo amore per il compagno, della guerra in Siria, della Turchia, delle aspirazioni di una vita diversa in un altrove lontano da Istanbul. Non succede nient’altro, non si esce mai dall’acqua se non per brevi istanti in cui il polso di Amel riaffiora veloce per poi tornar sotto, l’attesa dei soccorsi passa per l’incessante fatica del mantenersi a galla.
Non c’è pornografia del dolore in Purple Sea, ma le immagini che si susseguono non fanno ugualmente sconti nella rappresentazione della tragicità del reale. Il naufragio è raccontato dall’interno – del mare, delle sensazioni di Amel – rendendo l’atto del guardare più complesso e impegnativo del previsto. Non c’è una rappresentazione esplicita della morte, tuttalpiù il suo presagio che si deposita nelle grida ovattate che arrivano dalla superficie e, soprattutto, una nuda raffigurazione dell’atto di resistere che lascia allo spettatore un senso di sfinitezza e di mancanza d’ossigeno. Eppure, la rappresentazione del reale che Amel ci dà si articola attorno a un attaccamento viscerale alla vita, quell’attaccamento che si realizza nelle aspirazioni che ognunə di noi coltiva per la propria esistenza, e che Amel ci racconta parlando di Berlino, del compagno Khaled che l’attende e di una quotidianità tra le vie berlinesi tutta da conquistare. Le braccia e le gambe che si dimenano sott’acqua in un atto di resistenza estremo, la scena totalizzante nel documentario, conservano anch’esse quell’attaccamento alla vita, doloroso, estenuante e disperato, ma necessario.
Purple Sea è atto politico, così come lo è la scelta di Amel Alzakout di documentare la tragedia vissuta in prima persona, restituendo così a chi guarda un’immagine più sincera e, quindi, più drammatica del Mar Mediterraneo come fallimento e fine dell’Europa davanti ad una crisi migratoria, politica e umana senza degna risposta.