The Last Shelter – La nave dei folli
I cimiteri, si sa, vengono costruiti all’esterno della città, del paese o del villaggio. Due città, quindi: una dei vivi e una dei morti. Conosciamo perfettamente quei luoghi e sappiamo riconoscerli anche se la realtà in cui sono costruiti non la conosciamo affatto. Così, sappiamo, senza che ci venga detto, che un paletto verticale piantato per terra e uno orizzontale indicano il luogo di sepoltura.
In Mali, appena fuori Gao, città di 80.000 abitanti sulla sponda orientale del fiume Niger, c’è un piccolo cimitero. Della costruzione se ne sta occupando la Caritas cittadina: scavano l’aspra terra segnata da quei paletti citati precedentemente, cercano le ossa della persona sepolta ormai tempo prima, scavano un’altra fossa all’interno di un recinto fatto di mattoni, e riaccomodano i resti del defunto. Sulle placche commemorative si può leggere il nome (quando è conosciuto) e la nazionalità: ivoriana, guineana, maliana. Sono le persone che hanno provato ad arrivare in Algeria, in Tunisia, in Nord-Africa oppure in Europa, ma che per vari motivi sono tornate indietro fino a Gao e alla sua Casa dei Migranti, gestita, appunto dalla Caritas.
In quell’ultimo rifugio – ultimo per chi decide di fare la traversata del deserto verso il nord, ultimo per chi ha deciso di tornare nelle proprie abitazioni di origine – si incrociano le vite di tante persone, uomini e donne, giovani e meno giovani, ognuna delle quali portatrice di esperienze che troppo spesso fa rima con sofferenze.
Quello che traspare maggiormente da The Last Shelter di Ousmane Samassekou sono i vari livelli di agency che guidano le persone della Casa dei Migranti: in un primo livello si può scorgere la dimensione “pratico-valutativa” che fa sì che le decisioni vengano prese sulla base della loro esperienza in quel luogo e che quindi è connessa strettamente all’istante, al momento, al tempo, all’attuale (come nella storia di Mariko, un uomo di Bamako che ha un unico obiettivo: non tornare mai nella sua città); un secondo livello è quello della “proiettività” che permette agli uomini e alle donne di immaginare un percorso nella loro vita considerando le esperienze, le paure e i desideri (è questo il caso di Esther e Kadi, due ragazze di 16 anni, forti e determinate a voler lasciarsi alle spalle il passato fatto di sofferenze e inadeguatezza nella loro società); il terzo e ultimo livello è quello dell’”iterazione“: nella persona si riattivano, in maniera selettiva, schemi di pensiero e di comportamenti del passato che permettono di far riemergere identità, interazioni e istituzioni (è il caso di Natacha, una donna di 48 anni, introversa che gioca sempre da sola e che, pur avendo tutti i documenti, non riesce a tornare in Sudan dalla madre).
Quindi, se consideriamo il valore e la potenza, anche simbolica, dell’agency, l’azione che guida uomini e donne del rifugio è completamente in opposizione rispetto alla narrazione che in Europa, a partire dagli anni ‘80, si fa dei migranti, visti come attori passivi e incapaci di prendere decisioni.
In quella Casa dei Migranti ognuno collabora alla gestione dell’abitazione, dalla pulizia alla preparazione del cibo, dai momenti di socialità – e quindi di scambio di opinioni ed esperienze sulla traversata – al tagliare i capelli. È l’ultimo rifugio degli emarginati e delle emarginate. Emarginatə dalle loro abitazioni per aver semplicemente espresso il desiderio di cercare una vita più dignitosa, emarginatə per essersi ribellatə alle strutture tradizionali, questione che vale soprattutto per le donne, emarginatə perché hanno sentito il bisogno di liberarsi «dal passato e da tutto quello che è stato detto su di me. Essere fiera di me» (Esther).
Allora quella casa diventa una sorta di Narrenschiff, la Nave dei Folli dell’opera di Sebastian Brant scritta nel 1494 con le illustrazioni di Albrecht Dürer, nella quale venivano imbarcati i matti e i disadattati dei villaggi per tenerli fuori dalla vista dei concittadini. È una nave che fa del diversǝ, di quellǝ che, appunto, non si adatta alle regole o alle strutture tradizionali, unǝ passeggerǝ senza patria, senza radici, senza identità proprio come si sentono le persone che arrivano in quell’ultimo rifugio. Ma l’utilità e la forza di quella Casa sta proprio nel riuscire a far recuperare quel sostrato di identità che era andata perduta, che vagava nel deserto della mente.
La Narrenschiff di Gao o, se vogliamo darci una certa libertà, la Migrantenschiff di Gao realizza il sogno di una società in cui lǝ esclusǝ, lǝ ultimǝ arrivatǝ – e che arriveranno – hanno sempre la capacità di giudizio, sono determinatǝ (chi più chi meno) a portare avanti una propria istanza che sia partire o tornare, e che vada a intaccare su quelle strutture che ingabbiano la propria identità.
E allora, per parafrasare un celebre canto di Ivan Della Mea:
La Nave dei Migranti che rompe in letizia
la vecchia cultura con nuova allegria
e tutto il dolore già trancia sul ferro
del grande lucchetto per dare la via
al volo finale di tutto l’amore
al volo finale della fantasia
e ridere al tempo di oggi struttura
eletta a potere della borghesia
E ancora più bimbi con carta e bandiere
guardando diritto il solo pennone
faremo la danza dei cani delusi
coi pugni serrati per nuova illusione