Sbornia omicida: Occhiali Neri.
Esegesi del buio. Apostasia del proprio cinema: eclisse da ogni forma del colore. Rimane il buio, lo smarrimento narrativo, l’incertezza dello stile, la privazione dello sguardo sul mondo, sul suo orrore: viaggio al termine del suo orrore. L’ultimo film di Dario Argento è un capolinea, tonfo trionfale del cinema argentiano, L’Eclisse della sua Avventura cinematografica, dove il sole romano di Tenebre viene privato di ogni luce, lasciando incombere una lunga notte per Diana.
Dario Argento annulla il suo sguardo dietro gli occhiali neri di Diana, Ilenia Pastorelli, escort che finisce per essere preda di un misterioso serial killer che si aggira per il quartiere romano di San Saba a bordo di un furgoncino bianco, sfuggevole alle indagini di poliziotti non troppo svegli. Nel tentativo di fare fuori Diana, questa riesce a sopravvivere in un infuocato inseguimento notturno, perdendo la vista dopo una collisione con un’altra macchina, dove al suo interno c’è Chin, bambino di origini cinesi, che sopravvive, ma non i suoi genitori. Lei in vita senza vista, lui in vita senza famiglia, diverranno una coppia di improbabili amici d’indagine.
Il mondo di morte, sangue, carne, donne e violenza che ha sempre alimentato il cinema di Argento trova in Occhialini Neri il punto di appoggio (un pigro appoggio) su tre punti cardine riscontrabili nel suo cinema: c’è la cecità, privazione dello sguardo, ingresso nell’insondabile oscuro dove si sondano gli efferati delitti, che stuzzicano l’indagine mentale del non vedente Arnò nel Gatto a Nove Code, o condannano la vita del pianista cieco di Suspiria; c’è il bambino che come un innocente Virgilio orienta gli adulti, incapaci di vedere e “stare al gioco” dell’orrore; c’è infine la guida animale, il pastore tedesco (ancora Suspiria) a cui Argento affida lo sguardo di Diana, attraverso il consiglio dell’assistente sociale di Asia Argento, come prima c’era lo scimpanzé di Phenomena e tutto il mondo animale che sempre ha popolato la fantasia e i titoli dei film di Dario Argento.
Ma sono riferimenti, spiragli di luce, eclissati da una pigra voglia di stupire, di evolvere una propria idea di cinema. Forse (e certamente) non c’era l’intenzione, quindi non resta altro da fare se non spalancare le porte alla reiterazione pavloviana del genere, dove Argento cerca ciecamente di imitare se stesso, sfogandosi nella gratuita gioia di ripercorrere e omaggiare i propri spazi (dallo oscuro e solare urbano di Tenebre alla regno animale e bucolico di Phenomena), senza però sintonizzarsi sul tempo (contemporaneo) e sui tempi di una sceneggiatura che ingrana all’inizio (dall’evocativo montaggio iniziale tra i viali alberati a bordo dell’auto), perdendo il respiro in snodi fin troppo scritti, mal recitati, macchinosamente grossolani. Rimane l’orrore che Diana non riesce a visualizzare e noi, con Chin, lo vediamo per lei e per Dario. In un mondo dove l’assassino riesce a scappare dalle indagini riverniciando solamente il furgone, non resta altro che l’olfatto per ripudiarlo, per ridicolizzarlo, per ucciderlo, uccidendo la mancanza di logica che pervade tutto il film.
Dalla presentazione fuori concorso di Berlino alle nostre sale, undici anni dopo Dracula 3D, Occhiali Neri sconfessa l’inaspettato (in-atteso) ritorno claudicante di un regista che elude il suo cinema in un gioco sincero, senile e infantile. Un ultimo giro di giostra, dove almeno viene prima il divertimento e poi, forse, la nausea: quindi una bella sbornia da occhiali neri.