Tra le rovine di un adattamento: The Electric State
Ora un grande film su Netflix. Questa è la dicitura che trovate in libreria se cercate una copia di The Electric State, il celebre romanzo illustrato di Simon Stålenhag di cui Netflix ha prodotto l’adattamento cinematografico diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo. Senza girarci troppo attorno possiamo accodarci alla risposta unilaterale che il film sta ricevendo da buona parte delle testate giornalistiche del settore: The Electric State non è un grande film, tantomeno bello e purtroppo sarà uno dei peggiori prodotti targati Netflix che troverete sul catalogo della piattaforma. Dispiace che lo sia proprio questa prima traduzione cinematografica del libro di Stålenhag, tanto che lui stesso è intervenuto per tranquillizzare i fan su Instagram motivando il suo personale sostegno al film. Nonostante l’evidente cambio di tono che era già ravvisabile nei primi trailer, non ci interessano molto le disquisizioni che possiamo trovare oggi tra autori e fandom. Prendiamo atto che si tratti di un semplice film d’intrattenimento senza troppe pretese, è fin troppo chiaro se non fosse che pure nella sua concezione più potenzialmente divertente il film abbia davvero poco da offrire anche per lo spettatore più occasionale.
Consideriamo il budget di produzione: 300 milioni di dollari ai quali non è corrisposta neanche un’uscita in sala. Come molte testate stanno facendo notare, è lecito interrogarsi sulla natura problematica della politica aziendale di Netflix nei confronti di blockbuster da televisione. Se da un lato è consolante non doversi preoccupare di spendere soldi per trovarsi in sala un risultato così disastroso, dall’altro si rimane con l’amaro in bocca davanti ad un budget così imponente buttato al vento. Il fallimento di Electric State può aiutarci però a mettere a fuoco le difficoltà di un’industria nella quale il dialogo tra editoria e produzione cinematografica (in particolare modo quella hollywoodiana) fatica a risanare il ruolo della fantascienza come genere popolare capace di imporsi sull’immaginario. Lasciamo stare il malcontento (giustificato) dei fan del libro, perché The Electric State non è sbagliato in quanto adattamento ma soprattutto come prodotto di intrattenimento. Se si fosse chiamato o meno con quel titolo è irrilevante (fino ad un certo punto), a partire dal fatto che con i Fratelli Russo non ci sorprendiamo di trovarci di fronte all’ennesimo prodotto commerciale che mantiene al grado 0 qualsiasi spessore cinematografico, oltretutto in un film d’avventura che compie il peccato veniale di annoiare dai primi minuti, adottando una direzione, quella di tradire la cupezza del libro con un taglio più comico e family friendly, che (ribadiamo!) non è per forza sbagliata. Nella visione (molto televisiva) dei due registi assistiamo ad una riduzione “cinematografica” di cui il budget forse è servito solo a giustificare lo sfoggio dei risultati ottenuti dagli effetti VFX che restituiscono l’umanità dei tanti robot che popolano quel mondo. Se l’intenzione era quella di partire all’estetica retrofuturistica per intercettare l’eredità di una certa “cinematografia robotica” che ha reso celebri opere come Corto circuito, L’uomo bicentenario, Il gigante di ferro, Robots, per non parlare anche di titoli dimenticabili come Io, Robot, ecco che The Electric State denota una siderale carenza di qualsivoglia intenzione artistica che giustifichi il tradimento dell’opera originale. Potremmo tracciare un profilo post mortem dell’operazione ma l’hanno già fatto altri, perdendo tempo ad elencare i problemi narrativi e cinematografici che affliggono un’opera di scarso spessore visivo e a cui mancano i motori narrativi per costruire un racconto perlomeno avvincente. Semmai può essere utile cogliere il vero pregio indiretto del film: quello di risanare l’esperienza di visione con quella della graphic novel di Simon Stålenhag.
Pubblicato nel 2018 The Electric State è il diario di viaggio della giovane protagonista Michelle che si ritrova ad attraversare l’ovest statunitense in compagnia del robot Skip, avventurandosi nei colori a tinte nebulose e opache che hanno reso celebre l’estetica di Stålenhag. Gli Stati Uniti D’America degli anni Novanta vengono trasfigurati in una landa desolata congestionata di rovine robotiche. All’origine del lungo viaggio dei due protagonisti è la ricerca di un fratello minore scomparso di cui veniamo a conoscenza solo nelle ultime illustrazioni del libro. Lo scenario alternativo è quello di un 1997 in cui il prodotto di punta di una grande corporation high-tech ha condannato l’essere umano (o meglio: l’essere americano) ad uno scollamento completo dalla realtà “grazie al” Mode6, il visore brevettato dalla Sentre. Sappiamo che una guerra è stata combattuta con i droni dell’esercito federale: ce lo dicono le numerose navi da guerra arenate nel deserto del Mojave. Quando i progressi delle neuroscienze incontrano le derive più sfrenate del consumismo e delle istanze belliche, quello che rimane è lo spettro capitalista di un’Intelligenza Intracerebrale: una coscienza superiore pagata al caro prezzo degli strascichi di un’apocalisse. Il fascino contemporaneo per le nuove neurotecnologie viene rielaborato da Stålenhag nel paesaggio cyber-industriale di un’euforia individualistica che ha portato all’isolamento degli esseri umani. E’ così che acquista importanza il linguaggio della pubblicità ravvisabile nei tanti sorrisi smaglianti sparsi tra le illustrazioni promozionali affisse per le strade. “Winning designs awards. And wars.” è uno dei tanti slogan illustrati. L’intuizione è quella di aver fatto viaggiare nel tempo l’estetica di Hopper tra le pieghe di un incubo fantascientifico. Campi lunghissimi su orizzonti stradali che ci raccontano l’abbandono di città, quartieri, family market, hotel e parcheggi che riconfigurano l’allucinazione di un futuro mito della frontiera americana di cui Michelle e il robot Skip raccolgono i residui. Dalle pagine di Asimov e Philip K. Dick (“lo stato elettrico” cos’altro è se non una delle possibili applicazioni del mercerianesimo con cui Dick prefigurava negli anni 60 i social network di oggi?) alle suggestioni ravvisabili nella letteratura di David Foster Wallace, The Electric State colloca il viaggio distopico della Strada di Cormac McCarthy sui passi di una giovane ragazza. Il peso della geografia che si compone quadro dopo quadro è fondamentale, per cui è inevitabile non pensare Electric State come un altro testo chiave della cultura popolare odierna che ha fatto dell’esplorazione e del viaggio uno strumento contemporaneo per definire un’immagine della post apocalisse, come la ritroviamo in altre opere d’intrattenimento recenti, come le due serie tratte dai videogiochi di Fallout e The Last of Us, e forse ancora di più in Death Stranding (un’industria che del resto ha coinvolto l’autore all’interno di alcuni lavori come designer per No Man’s Sky). Nella loro fermezza contemplativa gli scenari disegnati in The Electric State compongono un abbacinante mosaico apocalittico di indubbio spessore cinematografico, come fermi immagine di un film interrotto e dimenticato che possiamo ricostruire a nostro piacimento tra un’immagine e l’altra, come se aggiungendo anche solo la voce fuori campo dei paragrafi ci si muovesse dalle parti di La Jetée di Chris Marker.
Di tutto questo nel film dei fratelli Russo rimangono solo vaghe tracce poco stimolanti. Le suggestioni figurative della concept art di Stalenhag vengono appiattite attraverso banali establishing shots che incollano le pigre progressioni di una storia deturpata di ogni possibile guizzo cinematografico. La rivisitazione della storia sarebbe potuta essere il soggetto perfetto per una saga di One Piece: Michelle e Skip partono alla ricerca del fratello (che diversamente dal libro viene riscritto come una figura messianica ostaggio della corporation), e il loro viaggio viene delineato all’interno di una cornice collettiva in cui la coscienza di classe dei robot (confinati oltre il muro in una zona interdetta, per non farsi mancare nulla in risposta all’attualità) ha l’occasione di guadagnarsi la sua rivalsa contro l’essere umano. Peccato che la sensazione di aver già visto tutto questo non sia aiutata neanche da un cast memorabile, come se le celebrità che ci figurano fossero state coinvolte con un casting automatico. Le uniche due note positive potrebbero essere i personaggi cattivi di Giancarlo Esposito e Stanley Tucci, nonostante rimangano imprigionati come i due protagonisti da una regia che fatica a rendere memorabili anche quelle che dovrebbero essere scene madri dentro cui ci si ritrova senza essere riusciti ad empatizzare con loro, buoni o cattivi che siano. Se l’idea rimane quella di una regia incapace di sviluppare la storia al di fuori di momenti nei quali i personaggi sono ostaggi dei dialoghi, mentre le scene d’azione fungono solo da collante in una dimensione geografica completamente annullata, allora la visione di The Electric State ne esce come la pallida riduzione di un’opera di fantascienza collassata nella sua dimensione più derivativa.
Dispiace fare il tifo per il formato televisivo a scapito di quello cinematografico, ma forse una narrazione più episodica avrebbe giovato all’operazione (e giustificato il budget e la distribuzione direct-to-stream). Basterebbe metterla a confronto con adattamenti più riusciti come i già menzionati Fallout e The Last of Us, per non parlare della produzione Amazon che nel 2020 portò sul piccolo schermo Tales from the Loop, uno dei primi libri di Simon Stålenhag. Finché Hollywood si affida a progetti del genere ai Fratelli Russo, sarà difficile sperare in risultati più promettenti o lungimiranti come ad esempio possono essere gli ultimi film di Bong Joon Ho e Oz Perkins che fortunatamente hanno trovato il loro spazio in sala. Mickey 17 e The Monkey sono entrambi due recenti esempi positivi (anche se imperfetti) per inquadrare una qualità degna di osservazione per quanto riguarda le possibilità dell’adattamento cinematografico. Mickey 17 è un’altra produzione dal budget colossale di cui ormai sono risapute le traversie produttive con cui il film esce tutt’altro che perfetto. In ogni caso, successo o non successo, è interessante considerare il caso quanto mai raro oggi di un adattamento istantaneo: la pre-produzione del film iniziò praticamente a cavallo della pubblicazione del romanzo eponimo nel 2022. Dalla fonte originale vengono tradotte le inquietudini di un’opera perfettamente in linea con la poetica del regista coreano che sceglie il registro della satira fantapolitica, cucendo attorno alla performance di Robert Pattinson un supplizio in cui la morte diventa una coazione a ripetere del suo corpo continuamente rigenerato come cavia grazie ad una stampante 3D. Altrettanto comica è l’intenzione di Oz Perkins con la declinazione demenziale di The Monkey, in origine un racconto tratto da una delle prime raccolte dell’orrore di Stephen King, scrittore di cui è nota l’ingombrante ortodossia nel rispettare i suoi materiali di partenza. Altrettanto nota però è anche l’estetica di Perkins, spesso algida e granitica come nel film di poco precedente Longlegs, thriller lontanissimo dalla chiave più pop di The Monkey che nella sua demenzialità rende giustizia all’anima gemella del romanzo di partenza. Con un budget di appena 11 milioni, il film ha incassato tre volte tanto nelle sale statunitensi. Come l’ultimo film di Bong Joon Ho, anche quello di Perkins è un film con dei limiti, nonostante siano entrambe opere di genere capaci di trovare tra le pieghe dei loro testi di partenza la linfa di un’idea cinematografica, che sia anche solo un gioco (in entrambi un gioco di morte). Sarebbe bello se in futuro qualche regista sia capace di fare lo stesso, tornando ad osservare le pagine di The Electric State, perché al momento davanti all’adattamento dei fratelli Russo è difficile trovarci un motivo d’interesse e, peggio, anche di intrattenimento. Nel frattempo, se non l’avete ancora fatto potete tenervi compagnia con un gran libro e cercare tra le sue immagini tanti altri possibili film.