Una visione doppia
L’identità come forma di controllo
Ho visto “Mickey 17” di Bing Joon-ho a Berlino, e non mi è piaciuto. Però mi ha in qualche modo messo in movimento. Ho sentito che non è solo un film sulla clonazione, e non ci voleva molto, ma anche e soprattutto uno specchio del nostro presente: un presente in cui ognuno di noi esiste in infinite varianti digitali, copie più o meno fedeli che vivono nelle banche dati, negli algoritmi, nei social network. Copie che non sono più solo riflessi passivi, ma entità attive che influenzano la realtà, plasmano il discorso pubblico, determinano il nostro accesso a servizi e opportunità.
La storia di Mickey, il clone protagonista, parla direttamente alla nostra epoca, la domanda che ci pone Bong Joon-ho è la stessa che forse dovremmo porci ogni giorno: chi siamo, davvero, quando la nostra identità può essere replicata (anche da noi stessi), manipolata, controllata? Cosa resta dell’unicità dell’esperienza umana, cosa significa essere autenticamente umani in un mondo di copie perfette (e apparentemente?) altrettanto umane?
Mentre pensavo alle più sbagliate tra le risposte possibili a queste domande, mi sono smarrito nel ricordo di quelle notti insonni passate a vedere “Blade Runner” per la settima volta, ossessionato dal monologo finale di Roy Batty e dal dubbio, prima delle varie versioni, che Deckard stesso potesse essere un replicante. Mi è tornata l’inquietudine provata davanti a “Moon” di Duncan Jones, dove il destino è un consumo triennale di solitudine. E, sì, sopravvalutando Michael Bay, ho anche riprovato quel brivido di consapevolezza di poter essere un “pezzo di ricambio” vivente per qualcuno, come in “The Island”, ma non solo organico, anche sentimentale, emotivo, esistenziale.
La distanza tra l’originale e la sua copia si è fatta sottile, quasi impalpabile, oggi. È questo l’elemento di realtà — sicuramente inquietante — che mi pare emergere da “Mickey 17”. Siamo di fronte a identità replicate, sacrificabili, rigenerabili, anche rispetto ai nostri ricordi, intatti o innestati che siano.
Il film arriva proprio ora, in un momento in cui il dibattito sulla regolamentazione dei sistemi digitali raggiunge il suo apice in Europa e negli Stati Uniti, mentre la questione dell’identità digitale — e quindi della replicabilità dell’identità stessa, come fosse un prodotto — sembra centrale, o forse dovrebbe esserlo, nel discorso pubblico e politico.
Intanto noi ci dibattiamo tra le nostre copie digitali, le foto profilo che non ci rappresentano, il numero crescente di account che gli adolescenti si creano sulla stessa piattaforma per poter essere molteplicità, e assimiliamo un sistema e una forma di controllo sociale sempre più pervasivi che si fondano, in maniera immanente al nostro esistere e quindi non così palese, proprio sulla nostra duplicazione, spesso, ma non sempre, algoritmica.
Forse esagero, ma ho la sensazione che questo tipo di narrazioni e di rappresentazioni sembrassero, fino a un po’ di tempo fa, appartenere a un futuro remoto, distopico e confortevolmente distante. Eppure oggi, con i sistemi di sorveglianza biometrica che proliferano negli spazi pubblici, con i deepfake che alterano la realtà percepita, con l’economia dell’attenzione che frantuma le nostre identità in miriadi di profili comportamentali venduti al miglior offerente, a me pare che quel futuro sia diventato il nostro presente, come se la finzione facesse cronaca.
Il nostro immaginario collettivo ha anticipato questa frattura identitaria: dalla serialità contemporanea come “Black Mirror” che ci ha mostrato come la tecnologia possa duplicare e manipolare le coscienze, a “Westworld” che ha esplorato la nascita della consapevolezza in esseri artificiali progettati per il consumo, fino a “Mr. Robot” che ha raccontato la dissociazione psichica nell’era digitale. Il cinema ha sempre saputo cogliere, con la sua potenza metaforica, le ansie e le contraddizioni del suo tempo.
Bong Joon-ho si inserisce perfettamente in questa tradizione con “Mickey 17”, portando la sua caratteristica capacità di fondere, per quanto in maniera didascalica e programmatica, critica sociale, dramma personale e un sottile senso dell’assurdo. Come già fece con “Parasite” e “Snowpiercer”, il regista sudcoreano usa elementi di genere per costruire un potente commento sul capitalismo contemporaneo e sulle sue contraddizioni, sulla mercificazione dell’identità, sulla riduzione dell’umano a merce.
Questa ipotesi allaga la cultura pop, il cinema, la tecnologia e la politica, tanto che ciascuna “disciplina” concorre a definire nuove forme di controllo sociale, nuove forme relazionali e spaziali, sempre più spesso attraverso la duplicazione dell’identità. Dal New York Times che denuncia OpenAI per questioni di copyright, alle più recenti applicazioni dei sistemi di credito sociale, dalla manipolazione dell’opinione pubblica attraverso contenuti artificiali alla conseguente progressiva erosione della privacy, dagli artisti che rendono visibili le infrastrutture invisibili della sorveglianza, all’uso predittivo dei dati nei sistemi giudiziari, dalla militarizzazione della privacy, ai movimenti di resistenza digitale, fino alle nuove forme di censura algoritmica: tutto converge verso l’annullamento del confine tra originale e copia, tra autenticità e simulazione, tra libertà e controllo, in un presente in cui si discute il concetto stesso di esistenza, forse di realtà, come elemento estraneo a noi stessi, proiettato, eppure ancora identitario.
In un ecosistema mediatico sempre più controllato, concentrato nelle mani di pochi giganti tecnologici, forse occorre, come dice Bong, un atto di resistenza contro l’omologazione e la standardizzazione delle narrazioni, se tutto sembra essere una copia, un remix, una reiterazione di qualcos’altro.
Questo mese allargato di BILLY, che si sdoppia e arriva fino ad aprile, esplorerà allora le intersezioni tra cinema, identità e controllo. “Mickey 17” di Bong Joon-ho esce nelle sale e la domanda che solleva è già qui, preme sulla nostra coscienza, richiede risposte urgenti: in un mondo di copie perfette, cosa significa – se significa qualcosa – essere autenticamente umani? E se la crisi dell’autenticità è ormai un dato di fatto nell’era dell’identità algoritmica, quali spazi ci restano per affermare la nostra unicità, la nostra libertà di autodeterminazione, la nostra essenza irriducibile a qualsiasi copia?