Berlinale 75. Cosa abbiamo visto #4

Berlinale 75. Cosa abbiamo visto #4

Yalla Parkour di Areeb Zuaiter (regia, sceneggiatura), con Ahmed (atleta di parkour), prodotto da Basel Mawlawi. Svezia, Qatar, Arabia Saudita, Palestina, 2024.

@ PK Gaza


“Yalla Parkour” trasforma l’assenza in movimento perpetuo. Areeb Zuaiter, figlia della diaspora palestinese, cerca nei salti di Ahmed, giovane atleta di parkour di Gaza, una forma per il vuoto che l’ha sempre abitata. «Trovare Ahmed nel 2015 è stato come riscoprire il sorriso abbandonato di mia madre in un luogo diventato inaccessibile», confessa la regista. Il parkour è allora un’ipotesi di ricerca: un corpo che si muove attraverso ostacoli, che trasforma barriere in punti di passaggio, che trasforma l’impossibilità del ritorno in una mappatura del dolore. Eppure il vero ostacolo è il tempo, che separa sempre più il presente dal ricordo. Ahmed e Areeb sono legati da un paradosso: lui vuole andarsene da dove lei vorrebbe tornare. «Ho avvertito la prigione in cui vive. E ho vissuto la sua determinazione ad andarsene», racconta ancora Zuaiter. Non sono solo i salti di un atleta tra le rovine, “Yalla Parkour” è il salto impossibile tra due desideri contrapposti: il ritorno e la fuga, entrambi nutriti dalla stessa fame di libertà. Alla fine, «Il viaggio di Ahmed è diventato un riflesso di quello di mia madre, e del mio», ammette la regista. È in questo riflesso paradossale che il film rintraccia il suo dolore più profondo: il movimento è l’unica costante quando terra, identità e memoria sono diventate fluide come l’acqua di quel mare dove «il sorriso di mia madre incontrò il mare, creando una magia senza tempo». Raccolto in gran parte prima del 7 ottobre, questo è un cinema dell’addio, quindi, che filma ciò che sembra ancora vivo sapendo che invece è già polvere.

What Does That Nature Say To You di Hong Sangsoo (regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio, musica), con Ha Seongguk, Kwon Haehyo, Cho Yunhee, Kang Soyi, Park Miso. Sud Corea, 2025.

© Jeonwonsa Film Co.

“What Does That Nature Say To You” cattura l’istante preciso in cui un corpo diventa estraneo all’ambiente che dovrebbe accoglierlo. Donghwa, un poeta trentenne, arriva alla casa della fidanzata Junhee e si meraviglia “di quanto sia grande”. Uno stupore che non è solo architettonico ma presto si fa esistenziale: quanto spazio serve per sentirsi a casa? Hong Sangsoo costruisce l’intera narrazione attorno a questo disallineamento invisibile. Donghwa visita un tempio buddista vicino al fiume, mangia uno stufato preparato con un pollo catturato dal padre di Junhee, attraversa rituali di ospitalità che dovrebbero integrarlo ma che invece sottolineano la sua completa estraneità. Quando “si ubriaca molto e rivela i suoi veri sentimenti”, è come se finalmente emergesse la verità: il suo corpo non appartiene a quello spazio, come forse la sua vita non appartiene a quella di Junhee. All’alba, non gli resta che salutare frettolosamente Junhee e allontanarsi in auto da quella casa. Il film di Hong Sangsoo, con la sua caratteristica semplicità formale, riesce a farci sentire il dolore fisico di questo scollamento tra individuo e ambiente, questo costante essere fuori luogo anche quando apparentemente si è al posto giusto. Anche qui, come in “Yalla Parkour”, c’è un movimento d’addio, è un movimento di allontanamento, forse una fuga da uno spazio che respinge in modo tanto gentile quanto definitivo.

Timestamp di Kateryna Gornostai (regia, sceneggiatura), prodotto da Olha Bregman e Natalia Libet. Ucraina, Lussemburgo, Paesi Bassi, Francia, 2025.

© Oleksandr Roshchyn

“Timestamp” cattura il tentativo ostinato e disordinato di un corpo collettivo – quello di studenti e insegnanti ucraini – di mantenere una postura di normalità in uno spazio deformato dalla guerra. Il titolo stesso allude a questa resistenza fisica: «Nella medicina da campo, il timestamp fa parte di ogni kit di laccio emostatico: è cruciale segnare il momento dell’applicazione di un dispositivo emostatico per prevenire la perdita di tessuto affamato di sangue», spiega la regista Kateryna Gornostai. Il film diventa così a sua volta quel dispositivo che cerca di preservare la vita, di mantenere il flusso di normalità in un corpo sociale ferito. «Ci siamo concentrati su esperienze scolastiche ordinarie e semplici, come le lacrime durante la cerimonia della prima campanella, uno studente senior che interpreta il ruolo di Babbo Natale, o nastri colorati nelle mani dei diplomati», racconta Gornostai. Ma questa normalità è precaria, zoppicante, illusoria: gli studenti studiano nei rifugi durante gli allarmi aerei, il preside mostra la parte distrutta e sigillata della scuola mentre le lezioni continuano in un’altra ala. Non indifferenza, è evoluzione. I corpi, qui, devono adattarsi, piegarsi, nascondersi – mentre là, a Gaza, cercavano il salto liberatorio – ma non smettono di cercare muscolature di resistenza. L’atto di filmare diventa un modo per dare testimonianza di corpi che si ostinano a occupare spazi che potrebbero essere annientati in qualsiasi momento, di danze corali che resistono anche quando tutto intorno crolla.

Lurker di Alex Russell (regia, sceneggiatura), con Théodore Pellerin, Archie Madekwe, Daniel Zolghardri, Sunny Suljic. USA, 2025.

“Lurker” trasforma il desiderio di occupare il corpo altrui in un thriller psicologico. Matthew, commesso in un negozio di abbigliamento, non vuole solo entrare nella vita di Oliver, musicista emergente, ma vuole abitarne il corpo sociale, quello spazio privilegiato che circonda la celebrità. I suoi “occhi simili a quelli di un uccello che fissano come laser” scrutano ogni possibilità di penetrare quella membrana invisibile che separa i nessuno dai qualcuno. Alex Russell ci racconta che questo desiderio di possesso passa attraverso l’immagine: Matthew usa la sua vecchia videocamera per documentare Oliver, per aiutarlo con il documentario che sta realizzando su se stesso, per creare contenuti per i social media. Ma questo atto di filmare è anche un tentativo di appropriazione. Quando dice a Oliver: «Penso che diventerai l’artista più grande del mondo», non è solo adulazione: è il desiderio di essere parte di quel corpo in ascesa. L’invasione si fa letterale quando Matthew installa una telecamera di sorveglianza nel soggiorno di Oliver, trasformando quello spazio privato in un teatro per il suo sguardo vorace. Quando finalmente Oliver comprende la minaccia è troppo tardi: Matthew ha già trovato modi per continuare a possederlo attraverso l’immagine. Russell costruisce una parabola sulla fame di incarnazione nell’era digitale, dove il corpo desiderato non è quello fisico ma quello sociale, quel sistema di relazioni e privilegi che circonda la celebrità come un’aura.

Questi quattro film, pur nella loro diversità, sembrano condividere una preoccupazione centrale: il corpo e il suo rapporto con lo spazio e il tempo. In “Yalla Parkour”, il corpo dell’atleta sfida la gravità e i confini — genocidiari, etnici, politici – attraverso il movimento; in “What Does That Nature Say To You”, il corpo del poeta diventa progressivamente estraneo allo spazio domestico che dovrebbe accoglierlo; in “Timestamp”, i corpi collettivi di studenti e insegnanti cercano quadri di normalità in spazi deformati dalla guerra; in “Lurker”, il corpo sociale della celebrità viene invaso e colonizzato attraverso l’immagine.

È il cinema della dislocazione corporea, dove ogni protagonista si trova in uno stato di non-appartenenza fisica: Areeb non può tornare nel luogo che considera casa, Ahmed vuole fuggire dalla prigione, la striscia di Gaza, che lo circonda; Donghwa non trova posto nella grande casa della fidanzata; gli studenti ucraini sono costretti a fingere non solo la normalità ma l’esistenza di un paese che non esiste più; Matthew è ossessionato dall’abitare uno spazio sociale che gli è precluso. I registi sembrano dirci che il corpo contemporaneo è sempre fuori posto, sempre in movimento verso una casa che non esiste o che è già stata persa.

Questo racconta anche la centralità dell’immagine in tutti e quattro i film: il documentario di Areeb che cattura Gaza prima della distruzione; lo sguardo contemplativo di Hong Sangsoo sulla casa che respinge l’ospite; le riprese di Gornostai delle scuole che (non) resistono; la videocamera di Matthew che cerca di possedere Oliver. Filmare diventa un tentativo di dare corpo a ciò che è assente o inafferrabile, di creare uno spazio alternativo dove il corpo possa finalmente trovare dimora.

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