The Brutalist
The Brutalist dura 3 ore e mezza e qualcosa in più quindi non aspettatevi una recensione di poche righe. Mi prenderò un po’ di tempo per parlarne. Se hai voglia di leggere qualcosa di più corto leggi questa].
Perché ti piace l’architettura?
Ognuno potrebbe rispondere in maniera diversa perché, ovviamente, è un’esperienza personale e soggettiva. E infatti così fanno i personaggi di The Brutalist. Ognuno di loro ha il proprio punto di vista che il regista Brady Corbet mostra senza esitazioni attraverso delle inquadrature storte, distorte, capovolte, che rispecchiano l’anima.
Perché ti piace l’architettura è anche la domanda che ho fatto a un’amica architetta.
«È un mix tra bellezza e utilità, è un’arte molto tecnica, fondamentale per l’esistenza dell’essere umano e per il suo vivere bene. Ha un ruolo sociale. E non solo, l’architetto deve essere una persona saggia perché ha una grande responsabilità sociale nei confronti della società. Deve creare qualcosa che faccia bene alle persone», mi ha detto.
Perché ho voluto inserire questo scambio personale per parlare di The Brutalist? Perché credo che questa definizione di architettura/architetto vada a spiegare bene una delle caratteristiche attraverso le quali è stato costruito il personaggio di László Tóth, interpretato magistralmente da Adrien Brody.
Infatti, László Tóth architetto ebreo sopravvissuto a Buchenwald porta con sé negli Stati Uniti la sua esperienza, il suo lavoro e, quindi, il canone stilistico del brutalismo, corrente architettonica che dagli anni trenta del Novecento ha decorato l’Europa con la sua imponenza e maestosità (e che deve il nome dalla sua caratteristica principale e cioè il béton brut, il cemento a vista). László Tóth, ovviamente e principalmente, porta con sé anche tutto il suo passato unendo a quest’ultimo una spinta verso il futuro e verso la costruzione di qualcosa di nuovo, di una nuova vita.
Costruire, in relazione a questo film, è forse il verbo più adatto per descrivere i vari momenti di un lungometraggio (tanto lungo, ma che non fa pesare i minuti). Diviso in tre atti e quindi in tre tappe della vita del protagonista e di chi gli sta attorno, The Brutalist racconta degli stereotipi e dei pregiudizi negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, dell’Europa e dell’orrore dei campi di concentramento nazisti, dell’eroina, delle dipendenze e dello stigma sociale. Del resto, mentre noi viviamo e abitiamo le nostre città accadono contemporaneamente talmente tante cose che non ci rendiamo conto di essere interni a una società oltre le nostre misere vite. “Bombardano l’Ucraina mentre stai portando le birre” direbbero con più poesia i Baustelle in Los Angeles.
E quindi, costruire: costruire una nuova vita partendo da zero e da un cugino diventato ormai americano, costruire nuovi ricordi, costruire una nuova credibilità come architetto, costruire materialmente, costruire figurativamente, costruire.
Ma László Tóth se deve costruire vuole metterci se stesso in tutto quello che fa: non è possibile, infatti, scindere la persona da tutte le sue parti, non è possibile agire senza che questa sia diretta dalle proprie esperienze e sensibilità, dal proprio vissuto. E così il brutalismo assurge a modo di vivere: corazzati, duri come il cemento, grezzi come il cemento a vista conduciamo delle vite che sono o dovrebbero essere funzionali a noi stessi.
Funzionale è un’altra parola che, più che descrivere e raccontare il film, ci parla di noi oggi e del perché questo film è così importante per quest’epoca.
Se l’architetto ha una funzione sociale, quindi funzionale alla società, se il brutalismo di László Tóth deve creare un ambiente funzionale alle varie anime da cui è composto, è ancora più vera la definizione del funzionalismo antropologico in cui ogni parte della società è funzionale alle altre parti.
Quanto più le parti sono funzionali al tutto, tanto più si individua nelle parti la responsabilità sociale. Che questa si concretizzi poi in un’architettura, in un’opera pittorica o in una musica non cambia la sostanza.
Ed ecco che arriva la musica. Una colonna sonora, che ve lo dico a fare, anch’essa funzionale, che se da una parte “ruba” i suoni diegetici per trasformarli in musica, dall’altra presta le sue note alla narrazione, rendendo tutto il film una melodia che accompagna il pubblico nella sua interezza e che lo accompagna anche durante la pausa nel mezzo. E allora The Brutalist è un film brutalista, se così si può dire: armonioso, inquietante, ansiogeno, speranzoso, luminoso, spigoloso, squadrato, riflessivo e filosofeggiante. Ogni sua parte è funzionale, certamente. Lo è soprattutto perché i suoi personaggi hanno il béton brut: sono tutti non modellati, non sono addobbati, non hanno orpelli, non si presentano se non per quello che sono. Sono così come sono, sono cemento a vista.
Come tutti noi, in fondo.