Berlinale 75. Cosa abbiamo visto #3
Altri tre film, da questa Berlinale che appare sempre più in tono minore ma che riesce lo stesso a fornire elementi di stupore e sbilanciamento, suggerendoci quasi una sinestesia in cui il mezzo cinematografico deborda in altri percorsi cognitivi.
Perché il cinema, nei tre film della Berlinale di cui parliamo oggi, diventa una cassa (dis)armonica in cui «il vero è un momento del falso», in cui la contemporaneità si struttura nei termini di una realtà che emerge come un residuo imprevisto, quasi un errore di calcolo, dal meccanismo stesso della finzione. Come se il dispositivo cinematografico, nella tensione insoddisfacente di produrre illusioni, finisse per catturare (suo malgrado?) frammenti di autenticità. Così la superficie apparentemente liscia della narrazione si ripiega su se stessa, rivelando una dimensione altra.
La Tour de Glace di Lucile Hadžihalilović (regia, sceneggiatura), Geoff Cox (sceneggiatura), con Marion Cotillard, Clara Pacini, August Diehl, Gaspar Noé, Marine Gesbert. Francia, Germania, 2025
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Nel purtroppo modesto “La Tour de Glace”, il set cinematografico diventa così una soglia ghiacciata dopo la quale Jeanne/Bianca viene risucchiata nel vortice della propria mesta trasformazione. Non è solo la Regina delle Nevi a congelare i cuori, sembra quasi che sia il cinema stesso a desiderare di cristallizzare i desideri, trasformando Christine in un simulacro – alla fine corrotto – di perfezione glaciale, una sorta di miraggio che attrae ma finisce per respingere, nella tensione necrofila delle sue relazioni impossibili e perciò inevitabili.
Was Marielle weiß di Frédéric Hambalek (regia, sceneggiatura), con Julia Jentsch, Felix Kramer, Laeni Geiseler, Mehmet Ateşçi, Moritz Treuenfels. Germania, 2025
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Il semplice ma sorprendete “Was Marielle weiß” però rovescia questa dinamica: la telepatia della giovane protagonista trasforma la realtà stessa in un set perpetuo, in cui i genitori diventano attori inconsapevoli di un film che non possono interrompere. È come se Marielle fosse simultaneamente regista e spettatrice di un reality show familiare che nessuno ha scelto di girare e che finisce per modificare la natura stessa dei rapporti, delle relazioni, del quotidiano dei genitori, con esiti di apparente felicità ma con una trasparenza morale che parla di rappresentazione, di proiezione, più che di autenticità.
Duas vezes João Liberada di Paula Tomás Marques (regia, sceneggiatura), June João (sceneggiatura), con June João, André Tecedeiro, Jenny Larrue, Caio Amado, Eloísa d’Ascensão. Portogallo, 2025
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In questo senso, anche un film noioso e compiaciuto come “Duas vezes João Liberada” ci fornisce un’ipotesi interessante, sul cinema, quando accade che il confine tra interpretazione e possessione si dissolve progressivamente. Ecco allora che João non sta semplicemente recitando Liberada: sta diventando il medium attraverso cui il passato reclama il diritto di riscrivere la propria storia. Il set non è più solo uno spazio di riprese ma diventa un palinsesto temporale in cui i secoli si sovrappongono come doppie esposizioni, facendo fallire l’idea di un biopic nel momento in cui la macchina della rappresentazione si inceppa e rivela una crepa di verità che nessuna sceneggiatura aveva previsto.
Tre film per discutere la possibilità che il cinema funzioni come dispositivo di una rivelazione possibile solo attraverso la contaminazione: tra presente e passato, tra reale e immaginario, tra corpo e “spirito”. Di nuovo: è una questione di trasformazione, è una metamorfosi, quella che si propone, proprio perché il cinema sembra aver bisogno della propria natura artificiale, del proprio statuto di menzogna, per poter attraversare e forse decifrare il reale, perdendosi.
E ciò che ci interroga maggiormente è capire se è solo nella (consapevole?) funzione d’inganno che risiede, paradossalmente, la capacità del cinema di dire il vero su una contemporaneità che appare, per sua stessa natura, bugiarda.