Berlinale 75. Cosa abbiamo visto #2
Mickey 17 di Bong Joon Ho (regia, sceneggiatura), con Robert Pattinson, Naomi Ackie, Steven Yeun, Toni Collette, Mark Ruffalo. USA, Corea del sud, 2024

Il nuovo attesissimo film di Bong Joon Ho, tanto atteso da non poterne scrivere prima delle 19 del 15 marzo, nonostante la proiezione stampa sia alle 11:45 e sia stipata in maniera inverosimile, è una specie di zibaldone non solo del cinema del regista sudcoreano, ma anche delle tensioni della contemporaneità, dalla questione del doppio a quella dell’immigrazione, dai fascismi più o meno striscianti che infettano Europa e America (tutta, a parte, forse, il Golfo del Messico), dai deliri di onnipotenza tecnologica al culto violento del salvatore, di qualsiasi confessione esso sia. Bong Joon Ho torna così a essere ipertrofico, tonitruante, pletorico, in un’orgia di sottotesti e sovratesti politici — espliciti e didascalici — in una messe di visionarietà maestosamente povera, e non è proprio sempre un bene. Certo, il presente richiede una posizione, richiede di stabilire una linea e di schierarsi, forse ci invita a stabilire cosa ci rende umani, e “Mickey 17” ci interroga, ma senza darci il tempo di rispondere o rispondendo per noi, che cerchiamo ancora di capire dove ci troviamo.
Reflet dans un diamant mort di Hélène Cattet (regia, sceneggiatura), Bruno Forzani (regia, sceneggiatura), con Fabio Testi, Yannick Renier, Koen De Bouw, Maria de Medeiros, Thi Mai Nguyen. Belgio, Lussemburgo, Italia, Francia, 2025

Il tanto atteso (almeno da chi scrive) “Reflet dans un diamant mort” di Hélène Cattet e Bruno Forzani stratifica la memoria come dolore, ne traccia un’ipotesi di rappresentazione nelle più ingannevoli forme e possibilità, propone l’errore come un’occasione mancata, e delinea un altro viaggio dentro le torsioni del ricordo e i modi in cui questo travalica il tempo per restare incastrato dentro gli anelli e i cimeli di qualcosa che non tornerà — o che non è mai esistito o che continua a ripetersi. La peste è su una piccola spiaggia della Costa Azzurra, nelle forme discinte di un corpo che ne replica un altro che si credeva morto e che non ha smesso di tormentare un uomo vecchio di rancore e di dubbio, tanto da rianimarne i fantasmi più crudeli. Il film di Cattet e Forzani è rutilante, visionario, incessante ed estenuante come solo le pulsioni sanno essere, assume forme estetiche e storiche e di genere e temporali continuamente cangianti, cambiando appigli e sostegni, in un eccesso meraviglioso ma, forse, a tratti, forzato. Cambia pelle, scoprendo un’altra pelle, ribadendo in maniera oltraggiosa il debito con il passato, con le sue forme, con le sue rappresentazioni, forse consapevole di una sconfitta che è quella di una lingua che non può più trasformare il significato, ma solo perdersi nel riflesso. Così il passato è un dispositivo attraverso cui si può guardare tutto, ma non si vede niente.