Berlinale 75. Primo atto.

Berlinale 75. Primo atto.

La Berlinale fa 75 edizioni e prova a tirarsi a lucido. Più luci rispetto agli ultimi anni, forse un po’ più di glamour, sicuramente nomi appena un po’ più pop. Lo dimostra il tappeto rosso, presidiato come non l’abbiamo mai visto (ovviamente niente rispetto alla vetrina luminescente e borghese di Venezia, per fortuna), le persone assiepate presso l’oramai nota entrata secondaria, e altri passaggi piuttosto significativi. Salutati i quattro, vigorosi anni di Carlo Chatrian, la nuova direttrice artistica, Tricia Tuttle, sprigiona entusiasmo contagioso in ogni esternazione, tranne, purtroppo, quando si tratta di parlare di Palestina e del genocidio che Israele sta compiendo, allineandosi in questo senso al clima discutibile che attanaglia tutta la Germania.

Ma come sempre c’è il cinema, tanto cinema, con una sezione tutta nuova e numerose scelte spesso radicali, spiazzanti, inedite, ma anche, rispetto agli anni precedenti, con qualche concessione in più al mainstream, ché, caspita, si compiono 75 anni.

Berlino, invece, di suo, torna a essere correttamente fredda, gentilmente tormentata da una neve splendida e morbida che ti invita a fare «quattro passi fino alla frontiera, vengo con te», orgogliosamente antifascista, ché tra poco ci sono le elezioni e l’Afd fa paura. Quest’anno, tra l’altro, tutto sembra più facile, per i giornalisti: i posti in sala si trovano nonostante le proiezioni siano sempre, alla fine, completamente gremite; la dislocazione delle opere pare maggiormente sensata; i luoghi in cui mangiare dopo i film serali hanno finalmente deciso di chiudere più tardi delle 19 e il freddo è spietato ma sa di essere nel giusto.

In questi primi giorni di Berlinale abbiamo visto molti film in concorso, qualche opera prima e diversi eventi speciali, opere diverse che contribuiscono però, ci pare, a un viaggio coeso, che suggeriscono uno sguardo d’insieme e pongono domande in comune, pur nella difformità. Un cinema smodato, sformato, cioè oltre i modi e le forme, in cui abbiamo trovato, come in un prisma non altrettanto de-formato, alcune domande che ci chiamano in maniera diretta.

Ecco allora che in questi primi giorni di festival, attraverso sale gremite e red-carpet innevati, abbiamo forse visto delinearsi un cinema che cerca di catturare qualcosa che sfugge continuamente: non solo il male che abita gli spazi intimi delle nostre esistenze, non solo il tempo che si contorce su se stesso, ma soprattutto quella particolare vibrazione che scuote il presente, quel tremore quasi impercettibile che precede il crollo o la rivelazione. Un cinema che diventa sismografo di inquietudini che non hanno ancora un nome, di trasformazioni che stanno accadendo sotto la superficie del visibile.

Probabilmente è proprio qui che il cinema trova la sua necessità più urgente: non nel nominare l’innominabile, ma nel mostrare come l’innominabile si incastri nelle fessure del quotidiano, come si annidi negli spazi familiari fino a renderli tossici, a tratti irriconoscibili. Questo cinema allora non mostra solo le ombre, ma le fa danzare, svelando come, banalmente, siano parte integrante della luce.

Eppure c’è anche qualcosa di vertiginoso nel modo in cui questo cinema affronta il presente: come se, consapevole dell’impossibilità di catturarlo nella sua interezza, scegliesse, o non potesse fare a meno, di mostrarne solo le fratture, i punti di rottura, quei momenti in cui la realtà – posto che esista – sembra cedere sotto il proprio peso. Non è più, se mai lo è stata, questione di rappresentazione, diventa questione di presenza: storie di un’epoca che sembra aver perso le coordinate, sia quelle tradizionali che quelle — come dire? — innovative, e che allora cerca nuove mappe per (dis)orientarsi.

Forse è proprio in questo continuo oscillare tra memoria e profezia che il cinema che abbiamo attraversato in questi primi giorni di Berlinale pretende di interrogarci ancora, come una macchina del tempo priva di controllo: non c’è solo un passato da registrare o un futuro da immaginare, ma c’è l’esigenza di creare una zona temporale ibrida dove tutto è contemporaneamente presente e assente, reale e immaginario. Come in un esperimento quantistico, l’atto stesso dell’osservazione modifica ciò che viene osservato.

Da questo punto di vista, il cinema che ci ha abitato in questi giorni sembra sempre più attratto dall’abisso: non tanto per un richiamo verso il vuoto, quanto per un’esigenza scomposta di trovare nuovi modi di guardare. Come se solo sull’orlo del precipizio, nel punto di massima tensione tra equilibrio e caduta, fosse possibile scorgere qualcosa di autentico sulla natura del nostro tempo.

In definitiva, quello che ci sembra emergere da questi primi, gelidi ma assolati giorni di Berlinale è un cinema che ha abbandonato ogni pretesa di oggettività pur di immergersi nelle faglie del presente o in una sua supposizione, non per mapparne i confini, ma per scoprirne le crepe, i sussulti, i movimenti tellurici. Non cerca uno specchio, questo cinema, diventa liquido e rivela una molteplicità di verità parziali e proprio per questo più autentiche. È un cinema che si perde, che accetta il rischio dell’incompiutezza, esibendo una fragilità incrollabile. In un’epoca ossessionata dalla chiarezza e dalla definizione, sentiamo chiaro come questo cinema, consapevole o meno, rintracci l’autentico nelle zone d’ombra, negli interstizi, nei momenti di esitazione. Ancora una volta e finalmente, non è più questione di capire, se mai lo è stata, ma di sentire: sentire il battito irregolare e il respiro affannoso di un presente disperato.

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