Che tempo che fa… senza Lynch.
Questo è un ennesimo articolo in ricordo di David Lynch come forse ne avrete già letti a centinaia.
È un po’ difficile trovare le parole meno banali per non risultare anacronistico in questa sacrosanta febbre commemorativa che ha tutto il diritto di protrarsi all’infinito. Per quanto mi riguarda la parole di Kyle MacMachlan continuano a risuonarmi in testa come le fiamme negli istanti più allucinanti di Velluto Blu: “Mi mancherà più di quello che i limiti del mio linguaggio possano raccontare”. Non poteva esprimersi in maniera più eloquente. I limiti del linguaggio: quelli che Lynch non ha mai conosciuto senza eguali nell’industria cinematografica degli ultimi cinquanta anni; e i limiti dell’industria, quelli li ha conosciuti eccome, li ha subiti, rifiutati, rivendicati, aggirati e meritatamente vinti in quel corpo di opere che sboccia alla fine degli anni Settanta e che ha continuato a risplendere nuovamente nel 2017 con l’opera omnia di Twin Peaks Il Ritorno, senza dimenticare i due anni di previsioni meteo con cui ci ha tenuto compagnia sul suo canale Youtube durante la pandemia e fino al 16 dicembre 2022, nello stesso periodo in cui la sua ultima apparizione su grande schermo faceva il giro del mondo con The Fabelmans di Steven Spielberg. David Lynch nei panni del mentore John Ford, è la prima cosa con (e non di) Lynch che ho voluto rivedere nel giorno della sua morte, dopo un’ora passata a scrollare instagram nella fiumana luttuosa di post che continuano a comparirmi in bacheca. Un ultimo cameo che da ora in poi si carica di tutto un altro senso metatestuale, tanto da ricordarmi l’ultimo videoclip in cui si immortalava un altro David, il Bowie di Blackstar, prima di scomparire come Lynch quasi in concomitanza del suo compleanno.
Intanto insieme all’aspirante Sammy Fabelmans di Spielberg pendiamo dalle parole di Ford processate nella voce stridula di Lynch, mentre ci viene trasmessa una masterclass di cinema sugli orizzonti interessanti e quelli boring as shit, gli estremi di un’idea classica di cinema in cui inseguire gli orizzonti perduti, dimensioni parallele, acque profonde, frequenze perturbanti, le fiamme, le sigarette, i caffè, i donuts, i ceppi, i messaggi, le scatole blu, i diner e i pub, i baci e gli abbracci più belli della storia del cinema, e tutte quelle altre visioni che, per chi ci è voluto entrare (anche suo malgrado), ci hanno restituito giornate solo apparentamene più perturbanti del mondo che rimane al di fuori del cinema di Lynch.
È inevitabile non ritornare al momento in cui Lynch è comparso “nell’orizzonte interessante” di ognuno di noi, grazie al valore puramente intergenerazionale di suoi film e, ancora meglio, del momento delle singole visioni. Chi scrive è troppo giovane per poter rivendicare memorie lynchane vissute negli anni novanta sull’onda del fenomeno più pop che fino a quel momento aveva firmato il regista di Missoula (per quello si rimanda all’articolo del caporedattore uscito qualche giorno fa su Billy). Da cinefilo di generazione Z quale sono (già un po’ vecchio?) posso invece ricondurre l’origine del mio calendario lynchano (e della mia dannazione cinefila) ad appena undici anni fa quando sono capitato nel nome di Lynch per puro caso: una serata improvvisata tra amici in cui qualcuno propose la visione estiva di un “film strano” come Eraserhead. Momento tanto sconvolgente quanto respingente da tenermi alla larga dal nome di Lynch per una manciata di mesi, finché la voce della sua persona non fece la sua comparsa sul piccolo schermo del palinsesto italiano: era il febbraio del 2014, dopo un normale giorno di scuola, e David Lynch era ospite a Che Tempo che fa, la loggia nera di Fabio Fazio (in anticipo di qualche anno sulle previsioni meteo partorite da Lynch?). Come avrei imparato poi dai suoi film, si prende giustamente i suoi tempi e incomincia a illustrare, munito di foglio e pennarello, il funzionamento della mente nella pratica della meditazione trascendentale, finché Fazio non interviene dal suo fuori campo per liquidare con la sua solita faciloneria la dissertazione di Lynch come “complicata” e non complessa. Da quel momento (non meno sconvolgente pure quello) il nome del regista che conoscevo solo per quello strano film che “era” Eraserhead diventa qualcos’altro, e sento così il bisogno di assimilarlo nella mia prima cinefilia che ancora si concretizzava in un superficiale collezionismo di dvd.
L’epoca delle liturgie da Blockbuster si era già estinta da qualche anno, purtroppo, e Netflix sarebbe arrivato in Italia poco più di un anno dopo (e il fenomeno Letterboxd ancora qualche anno dopo), una breve cornice temporale in cui per me il nome di Lynch guadagna già un’aura archeologica nel “lontano” 2014, quando ancora c’erano i reparti homevideo fittamente catalogati nelle grandi librerie in cui mi intrufolavo durante le gite scolastiche. Tra i pochi dvd presenti alla voce Lynch trovai solo quello di Mulholland Drive, in cui è indicato il premio per la Palma d’Oro: sarà quindi un film da vedere, pensai. Lo vidi un pomeriggio dopo scuola e non ci capii un meraviglioso nulla arrivando al termine della visione piuttosto appesantito da quei 145 minuti. Per un cinefilo, ahimè, battezzato con i sogni nolaniani di Inception, trovarsi di fronte ai sogni di Lynch partendo da Eraserhead e Mulholland Drive fu decisamente un approccio brusco e arrivò così la “via di mezzo” con Twin Peaks, giusto in tempo prima che escano nel giro di un anno le prime voci di una nuova stagione che avrei atteso spasmodicamente fino al secondo anno di università. Per quanto non me li fossi mai goduti pienamente alla prima visione, (ri)vedere i film di Lynch è stato (e continuerà a esserlo) un lento apprendistato a non preoccuparsi dei propri limiti, anche di fronte a un “semplice” film solo apparentemente illeggibile. Senza bisogno di dovere per forza capire da subito l’intensità di una percezione che proviene dal buio. Come dice Mitzi Fabelmans al giovanissimo Sammy/Spielberg: “I film sono sogni che non si dimenticano mai”, un mantra che guida l’aspirante cineasta a fissare le immagini dell’incidente cinematografico che ha visto al cinema negli anni cinquanta. Cinque decadi dopo gli eventi di Fabelmans, anche gli incidenti di Strade Perdute, e ancora più definitivamente nei primi minuti di Mulholland Drive, continuano a essere gli incubi di Lynch che non dimenticheremo mai, come le prime volte in cui abbiamo cercato di rivederli la seconde, terze, quarte volte. Undici anni dopo per me Lynch se ne va mentre si inscena in diretta “l’incidente” di un fuoco che cammina e divampa sulla sua Hollywood da cui è dovuto evacuare a 78 anni. Un’uscita di scena o forse una definitiva e beffarda entrata in scena nella storia, ancora una volta e in caso, oltre i limiti di un addio al linguaggio.