The Substance: la re-invenzione del Doppelgänger

The Substance: la re-invenzione del Doppelgänger

In The Substance, la regista Coralie Fargeat fonde body horror e techno-horror in un’esplorazione critica dell’identità, della tecnologia e della mercificazione del sé. Il lavoro di Fargeat non si limita ad abbracciare il grottesco, ma lo utilizza per interrogare i confini precari tra identità e artificio. Attraverso Elisabeth Sparkle (Demi Moore) e la sua inquietante “altra sé”, Sue (Margaret Qualley), il film costruisce una riflessione sulla fragilità dell’identità nell’era della perfezione mediatica, e una critica femminista alle pressioni sociali sulle donne per mantenere gioventù e bellezza.

La Trama: Il Conflitto tra Sé e Doppio

Il film segue la storia di Elisabeth Sparkle (Demi Moore), un’attrice che messa da parte dall’industria cinematografica e televisiva per via dell’età, per cercare un modo per ringiovanire e riacquistare visibilità, si affida ad un prodotto sperimentale che promette di creare una versione migliore di sé. Tuttavia, l’effetto collaterale inaspettato è la creazione di Sue (Margaret Qualley) una versione più giovane e vivace di Elisabeth, un doppio con cui si deve scambiare tassativamente ogni 7 giorni. Questo sdoppiamento diventa il fulcro del film, rappresentando non solo un conflitto tra due identità, ma anche una metafora delle pressioni sociali che trasformano il corpo femminile in un oggetto da manipolare e idolatrare.

Al centro della narrazione c’è quindi la relazione tra Elisabeth e Sue, che funge da rappresentazione letterale e metaforica del doppelgänger. Storicamente radicato nel folklore, il doppelgänger in The Substance assume una veste moderna. È vero che Sue destabilizza il senso di identità e di autonomia della protagonista, ma Fargeat si discosta dalle rappresentazioni tradizionali in cui il doppio è intrinsecamente malvagio. Al contrario, Sue è un luogo di conflitto: in parte è avversaria, e in parte è incarnazione del desiderio stesso di Elizabeth di sottostare alle aspettative culturali e sociali sulla perfezione e sulla giovinezza.

Con lo scorrere della storia, la mutevole dominanza di Elisabeth e Sue all’interno del loro corpo condiviso viene visualizzata attraverso trasformazioni corporee sempre più grottesche. L’inquadratura di Fargeat, con la sua enfasi sulle texture superficiali e sulla fisicità della turgida pelle di Sue, funge da critica satirica al modo in cui il cinema – e per estensione la società tutta – spesso riduce le donne a oggetti visivi. Tuttavia, quella stessa pelle, che inizialmente significa il fascino superficiale di Sue, diventa mostruosa verso il culmine del film, nel tentativo di liberarsi e ribellarsi con violenza agli ideali tradizionali di bellezza.

Tecnologia e Ansia Contemporanea

The Substance si espande chiaramente anche il criticare le ansie contemporanee legate alla tecnologia e ai media. Il film denuncia il modo in cui la cultura digitale moltiplica e frammenta le identità. L’esistenza di Sue come doppio biologicamente modificato è parallela al fenomeno dei sé curati online, avatar che promettono la libertà di definire chi e come vuoi essere percepito, ma intrappolano gli individui in cicli di confronto e inadeguatezza.

Riferimenti al Cinema Horror Classico

Uno degli aspetti più evidenti di The Substance è sicuramente la sua ricchezza visiva, che omaggia i grandi classici del cinema horror. La scena del ballo, in cui la violenza esplode in una manifestazione di potere, è chiaramente un riferimento a Carrie di Brian De Palma. Le geometrie degli interni evocano Shining di Kubrick, mentre le trasformazioni fisiche richiamano il body horror di Cronenberg (La Mosca, Videodrome). La scena del “backbursting” richiama invece Alien: Covenant, mentre l’atmosfera disturbante e i volti deformati rimandano a David Lynch-Strade perdute.

Questi richiami non sono semplici citazioni, ma dialogano attivamente con i temi del film, trasformando The Substance in un sofisticato doppio formale del genere horror stesso. Tuttavia, a tratti, l’eccessiva insistenza su questi riferimetni rischia di sovraccaricare la narrazione, facendo perdere parte della sua originalità.

La Vittoria di Demi Moore: Un’Eco Horrorificamente Reale

Infine, la scelta di Moore per il ruolo di Elisabeth, un’attrice che lotta contro l’obsolescenza imposta dall’industria, è un commento incisivo sulla realtà di Hollywood. Moore stessa, un’icona degli anni ’80 e ’90, ha affrontato pressioni simili a quelle vissute dal suo personaggio. La sua recente vittoria ai Golden Globe per la sua interpretazione in The Substance ha amplificato a posteriori il potenziale horror della pellicola.

Se da un lato la celebrazione di Moore sembra sfidare le dinamiche di esclusione, dall’altro conferma gli stessi standard che il film denuncia. Moore, attraverso la sua vittoria, diventa un’estensione del personaggio di Elisabeth: un simbolo del sistema che premia e perpetua il mito della giovinezza eterna. L’industria celebra il suo ritorno, ma lo fa attraverso un ruolo che riafferma il legame indissolubile tra il valore di un’attrice e la sua apparenza, in quanto è evidente all’audience, che per quanto Elisabeth non si consideri più attraente nel film, Moore, volente o nolente, nel suo ruolo continua a rappresentare quegli standard di bellezza inarrivabili che sono imposti alle donne comuni. Questo crea un effetto di “doppio mediatico” in cui Moore, come Elisabeth, non può mai sfuggire completamente alla logica che cerca di criticare, ma anzi la perpetua.

Nonostante la narrazione sembri offrire una via di fuga attraverso la resistenza e l’accettazione della mostruosità, la realtà mediatica finisce per reinscrivere quegli stessi paradigmi di controllo e perfezione. La tecnologia mediatica trasforma l’attrice in un’immagine riflessa, un eco del suo personaggio che perpetua le dinamiche oppressive invece di smantellarle.

Un’Opera potente ma didascalica

Nonostante il suo stile visivo e le sue riflessioni tematiche, The Substance soffre di un’eccessiva didascalicità. La metafora del doppio è chiara fin dall’inizio, ma il film insiste nel ribadirla attraverso dialoghi espliciti e scelte narrative fin troppo prevedibili. Anche il body horror, per quanto visivamente efficace, si sviluppa in modi prevedibili, senza mai sorprendere realmente lo spettatore (neanche nel climax finale).

In definitiva, è un film che brilla per ambizione e ricchezza visiva, ma che a volte si perde nel tentativo di guidare troppo lo spettatore. Coralie Fargeat offre una riflessione importante sull’identità e sull’ossessione per la bellezza, ma il suo approccio esplicito riduce l’impatto delle intuizioni più profonde. Nonostante questo, il film resta una testimonianza del talento di una regista che sa usare il linguaggio dell’horror per parlare delle ansie del nostro tempo in modo appetibile.

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