Fino a prova contraria: Giurato Numero 2
Una prima inquadratura verso il titolo Giurato Numero 2, ultimo film di Clint Eastwood: l’immagine di una dea bendata che sorregge una bilancia, un primo stacco e compare una giovane ragazza incinta, anche lei è bendata, che si muove in una stanza immacolata arredata per accogliere il figlio in arrivo di lei e Justin (un sempre più bravo Nicholas Hoult), il protagonista della storia, felice di poter stare insieme a lei, se non fosse che la giornata sarà più lunga del previsto.
Il fatto è questo: Justin deve prestare (molto svogliatamente) servizio come giurato numero 2 per un caso di omicidio in cui l’imputato pare, per l’avvocato della causa, interpretata da Toni Colette, facilmente inquadrabile nell’unico responsabile possibile per la tragica scomparsa della sua compagna. La giustizia è cieca, come recita il mantra promozionale del film, e la colpa vede tutto. Le verità nascoste vengono ben presto a galla nei primi minuti: alla prima udienza la ricostruzione dell’omicidio risveglia in Justin il ricordo di quella sera, anche lui nello stesso pub con la vittima e il presunto colpevole a qualche tavolo di distanza, uno sfogo trattenuto dal rischio di compromettere la sobrietà da un passato di dipendenza, poi una fuga nella pioggia e un’ammaccatura imprevista alla macchina coincide con lo stesso luogo in cui è stato rinvenuto il corpo della giovane donna. L’altro fatto è questo: Justin è il vero colpevole ma non vuole che la colpa ricada su un’innocente.
E’ quantomai perfido e avvincente il congegno narrativo affidato alle mani dello sceneggiatore Jonathan Abrahms. La premessa scatenante apre ad un continuo gioco di ribaltamenti di prospettiva, davanti ai quali le reazioni umane dei personaggi offrono allo sguardo di Eastwood una nuova e raffinata indagine, morale e politica, sulla società statunitense. Difficile non pensare al capolavoro La parola ai giurati di Sidney Lumet durante la prima seduta della giuria: una tassonomia di volti americani che abbiamo conosciuto con il carico informativo sufficiente al giudice per accettarne l’ammissione in aula, nonostante tutti nascondano qualcosa oltre alla verità sempre più ingestibile per Justin. E poi c’è, ovviamente, tutto il cinema di Eastwood, che questo Giurato Numero 2 racchiude e rilancia di continuo, ripassando da uno dei meno noti e citati titoli della sua filmografia, lo strepitoso Fino a prova contraria. Anche in questo film nulla è mai dato per scontato, perché alla banalità si reagisce con la complessità umana, come una chimica morale (e non moralista) pronta a scoperchiare i nervi di una società americana impegnata a spuntare la propria agenda ideologica a costo di ignorare l’evidenza e ottenere più consenso politico. In questo senso Toni Colette è il volto eastwoodiano perfetto per incorporare con maestria questa contraddizione nell’equazione umana del film. Non è da meno il resto del cast, a cui si aggiunge una breve parentesi fondamentale del giurato J.K. Simmons, attorno al quale Eastwood scolpisce addosso, ottenendo sempre il massimo dai suoi interpreti, un paesaggio umano di luci ed ombre, contraddizioni e colpi di scena che stratificano continuamente la consueta partitura visiva di un evento chiave della narrazione: l’incidente al pub su cui si scatena una violentissima pioggia notturna.
Giurato Numero 2 non ha niente da dimostrare che non sappiamo già sulla poetica del suo regista, se non il record invidiabile di Eastwood di non smettere mai di raccontare per immagini anche alla veneranda età di 94 anni, e trovare l’ispirazione per realizzare un’opera ancora squisitamente classica e lucida. Un altro tassello di rilievo all’interno di una delle carriere cinematografiche più significanti del cinema statunitense dagli anni 70 ad oggi. Se il film precedente, più sgangherato e goffo, seppur adorabile, Cry Macho, era un ennesimo autoritratto senile della sua iconografia, commuove qui la scelta di farsi da parte come attore senza rinunciare alla profondità di sguardo e consegnare il gelido finale al momento di una nascita, forse il più stridente e adatto per parlare alle nuove generazioni (?). Un epilogo che fa rima con un’altra nascita, quella che chiude Megalopolis, l’opera “finale” di Francis Ford Coppola, regista simbolo della New Hollywood che non ha condiviso lo stesso fortunato (e più sicuro) destino produttivo del solitario Eastwood. Entrambi film che scandagliano, pur con registi completamente diversi, l’arrivo o il rinvio di una morte, di una colpa che vede tutto, della caduta di un impero e del suo sistema giudiziario (il “migliore” al mondo), prima di un’ultima schermata definitiva a nero.