Nosferatu
Il vampiro è una figura mitologica e archetipica dell’orrore che compare oggi in una sequela infinita di libri, film, serie televisive, fumetti, videogiochi. Tra tutte, l’opera che sicuramente segna un solco rispetto alle altre (tra cui ricordiamo Il vampiro di John Polidori del 1819) e che costituisce tuttora la base di molte opere contemporanee è il romanzo Dracula di Bram Stoker (1897) da cui sono stati tratti, in maniera più o meno fedele, numerosi adattamenti cinematografici, a partire dal Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922. Un’opera in cui il regista si ritrovò a cambiare titolo, nomi dei protagonisti, ambientazione (da Londra alla Germania e dalla Transilvania ai Carpazi) e ciononostante venne denunciato dagli eredi di Stoker, detentori dei diritti, che l’obbligarono a distruggere tutte le copie del film (di cui però riuscì a salvarne una clandestinamente). Nel 1979, a distanza di quasi sessant’anni, il regista tedesco Werner Herzog ne realizzò un remake recuperando i nomi originali dei protagonisti, dato che i diritti d’autore erano scaduti. Arriviamo infine ai giorni nostri dove, diversi anni dopo dal suo annuncio, il talentuoso regista statunitense Robert Eggers, riporta in sala il vampiro più famoso della storia.
Una scelta quella di Eggers perfettamente coerente con il suo percorso registico e tematico, lui che delle forme archetipiche e classiche dell’horror ne ha fatto il suo esordio con The Witch (2015) sorprendendo pubblico e critica, per poi continuare con le leggende e i mostri marini nel meraviglioso The Lighthouse (2019) e arrivando all’epica con The Northman (2022).
Così, ancora una volta, Eggers torna al principio, al mito, mettendo in scena il suo Nosferatu raccontando la (nota) storia di Thomas Hutter, un agente immobiliare, mandato dal suo sinistro capo a chiudere un affare nei Carpazi presso il Conte Orlok, desideroso di acquistare una proprietà a Wisborg. Arrivato a destinazione, Thomas si rende conto che le superstizioni e leggende che accompagnano la natura del conte sono più che veritiere specie nel momento in cui quest’ultimo mostra un fervido interesse per la moglie Ellen. Da lì in poi inizia l’incubo che metterà in pericolo non solo Thomas e la moglie, ma tutta la città.
Se la storia è dunque la stessa, importante è notare come per tutti e tre i registi sia stata veicolo per raccontare il contemporaneo. Per Murnau il vampiro è simbolo dell’oscurantismo e della grande minaccia dittatoriale che si sta per abbattere in tutta la sua ferocia sulla Germania negli ultimi anni della Repubblica di Weimar: un governo fragile, corrotto e sul punto di crollare (come raccontato anche da Fritz Lang nel bellissimo film Il dottor Mabuse, sempre del 1922). Herzog invece mette in scena un vampiro esistenzialista che sente il peso di secoli di vita e che brama l’amore di Ellen (Lucy in questo caso) in quanto visto come l’unico conforto che può permettergli di continuare a vivere giungendo a un finale pessimista per cui al male non c’è mai fine e tornerà sempre reincarnandosi in altri uomini. E nel Nosferatu di Eggers cosa vediamo?
Se la storia torna a ripetersi ciclicamente ecco che a un secolo di distanza i tempi di Murnau non ci sembrano poi così lontani – non a caso si utilizzano per i protagonisti i nomi del film di Murnau: Conte Orlok (Bill Skarsgård), Thomas Hutter (Nicholas Hoult) Ellen Hutter (Lily-Rose Depp) e il dottor Sievers (Ralph Ineson) – in Europa la guerra è tornata, la tenuta dei vari governi è sempre più precaria e sempre più conflitti nel mondo sono iniziati o sono sul punto di incominciare, portando in auge un senso di incertezza, di minaccia, di terrore come appunto sembra simboleggiare l’ombra della mano di Nosferatu che si estende questa volta, a differenza dei due film precedenti, su tutta la città e non solo verso singole persone.
Il film del nostro dà inoltre un ruolo chiave al personaggio di Ellen. Infatti, a vedere in sequenza i tre film, ci si accorge di come la sua figura venga sempre più approfondita: da pura creatura sacrificale in Murnau, a eroina che, spinta dalla sua fede, decide di salvare sia la città dalla peste che il marito in Herzog, a vero e proprio catalizzatore del tutto in Eggers, dove il suo rapporto con Orlok è un qualcosa che precede l’incontro col marito, è un legame nato dalla sua conoscenza e pratica (non così chiara, va detto) dell’occulto e che, col tempo, si è evoluto in una relazione, che oggi definiremmo “tossica”, cessata grazie all’amore di Thomas. Tuttavia il male torna sempre e il conte rivendica il suo legame con lei, mostrando tutto il suo lato possessivo, machista, capitalista – da uomo abituato a ottenere tutto quello che vuole per mezzo di denaro e/o prepotenza – e vendicativo. Ellen è dunque una novella Pandora che ha (ri)liberato il male nel mondo, ma, allo stesso tempo, è anche la nostra unica speranza di salvezza, la sola via di redenzione, la sola chiave per rompere il legame che lei stessa ha creato, e come la giovane Thomasin (The Witch), Thomas Howard (The Lighthouse) e Amleth (The Northman) anche lei non può sfuggire al destino che la attende anche perché vive in un mondo in cui in pochi le credono o possono/vogliono aiutarla.
Ecco che allora anche un giovane regista come Eggers ritrova – o meglio, nel suo caso, ha sempre ritrovato – nel ritorno alle forme classiche del mito e dell’orrore un modo per raccontare la contemporaneità, con la consapevolezza che la storia è destinata a ripetersi, forse perché non abbiamo trovato – o proprio perché l’abbiamo trovata – la risposta alla domanda che Ellen fa al Professor Albin Von Franz (Willem Dafoe):«Il male è in noi o viene dall’aldilà?».