Nostalgia e necessità
In un momento in cui il concetto stesso di epoca appare contrarsi su tempi ridotti e accelerazioni esponenziali, possiamo probabilmente parlare di un’epoca nuova, appunto, e non solo in termini di definizione formale.
Un’epoca in cui, da un lato, l’innovazione tecnologica sembra fagocitare se stessa a velocità sempre crescenti, e dall’altro, proprio per questo, il panorama audiovisuale contemporaneo ci obbliga a un apparente paradosso: un deciso, quasi ostinato, ritorno al classico.
Ma che significato ha, oggi, in un contesto come quello appena descritto, questo sguardo insistente, che potremmo azzardarci a definire quantomeno “retrospettivo”?
A gennaio, noi di BILLY, abbiamo deciso di azzardare qualche risposta, ovviamente in forma dubitativa, ovviamente in termini interrogativi. Perché le possibilità sono varie e a tratti di segno opposto. Siamo forse di fronte a una patologia che racconta di una rassegnata stanchezza creativa, oppure, al contrario, questa tendenza tenace potrebbe rappresentare una risposta lucida – e formale – alle vertigini caotiche del presente?
È chiaro come la fenomenologia di questo presente si manifesti in molteplici forme di rappresentazione. È pur vero infatti che l’opportunità di questo percorso spesso si appoggia a remake o reboot di pellicole storiche, oppure alla riproposizione di stilemi narrativi che potremmo definire consolidati, o, ancora, al recupero di un’estetica vintage o infine al desiderio di strutture drammaturgiche tradizionali, ma sarebbe riduttivo leggere questa tendenza come una forma di mera nostalgia o sintetizzarla in una semplice riproposizione di ciò che appartiene alla memoria.
Perché, lo diciamo subito, alla base di questa pulsione del contemporaneo c’è quasi sempre il pretesto, laddove il prodotto storico rappresenta un’occasione di interrogazione, un riferimento rielaborato: il “classico” a cui si guarda non è tanto un periodo storico definito quanto piuttosto un dispositivo interpretativo, uno strumento attraverso il quale provare a decodificare la complessità del presente.
In questo senso, il linguaggio audiovisivo contemporaneo non è in metamorfosi, ma è esso stesso una metamorfosi: in un’epoca in cui, infatti, come suggerisce Baudrillard, la simulazione ha sostituito la rappresentazione, ecco che il ritorno al classico potrebbe essere interpretato addirittura come un tentativo di riappropriazione del reale. In termini che possono forse apparire reazionari, per quanto non lo siano, credo effettivamente non casuale l’affermazione di questa pulsione in coincidenza con un momento storico in cui l’esperienza della realtà è sempre più mediata – e replicata – da filtri digitali e algoritmi.
Estendendo il discorso, allora, ci troveremmo di fronte a una necessità del presente che potremmo definire semantica, laddove la forma rappresenta, oltre che – come detto – un desiderio di interpretare la contemporaneità, anche una tensione fortemente comunicativa. In un panorama mediale dove la frammentazione narrativa e l’ipertrofia visiva sono la norma, il ritorno a strutture classiche potrebbe rappresentare un tentativo di ritrovare una grammatica condivisa, uno spazio comune di significazione. Non si parla quindi di una sorta di fuga nostalgica nel passato, quanto piuttosto di una ricerca di strumenti interpretativi per navigare la contemporaneità.
È del tutto evidente, infatti, che questo movimento – che vorrei definire, senza giudizio, retrogrado, e che paradossalmente sposta avanti guardando indietro – si apre e si conferma in opere audiovisuali che utilizzano il patrimonio classico non come un rifugio ma come una chiave di lettura del presente. È allora un processo di risignificazione, quello che ci troviamo di fronte, una tensione che testimonia come il classico non sia un deposito polveroso di forme superate, ma un organismo vivo e ancora dirompente, se attualizzato, capace di dialogare con le inquietudini contemporanee.
La vera domanda quindi non è tanto perché si torni al classico, ma cosa questo ritorno ci dica del nostro presente. Un presente allagato di incertezze e di trasformazioni radicali, al cui interno è possibile che il classico rappresenti un sistema di coordinate per orientarsi nel caos. L’audiovisivo contemporaneo da tempo dialoga con il passato in maniera stretta e irrinunciabile, come anche BILLY ha più volte avuto modo di indagare e raccontare leggendo la parabola che questa connessione sta tracciando: oggi, in un momento storico in cui la sovrabbondanza di stimoli e di informazioni rischia di tradursi in una paralisi interpretativa, il passato può apparire come una mappa esegetica a cui, in maniera più o meno istintiva, rivolgersi.
Il cinema e l’audiovisivo contemporaneo, nel loro ritorno al classico, non stanno quindi compiendo un’operazione di restaurazione, quanto forse piuttosto di traduzione, ossia traducono il presente attraverso il filtro di forme consolidate, non per semplificarlo, ma per renderlo leggibile, ed è un desiderio, questo, è un percorso che richiede maggior consapevolezza creativa e maggior coraggio interpretativo, con buona pace di chi vi legge un ripiego fallimentare.
In questi termini, verrebbe da azzardare che il ritorno al “classico”, al passato, alla memoria, si possa configurare come una delle risposte possibili ad alcune tra le domande urgenti del nostro tempo: come dare forma e senso al caos (posto che si voglia farlo)? Come rendere intelligibile un presente che è sfuggito probabilmente per sempre (e risulta quindi irriducibile) alle categorie tradizionali di interpretazione?
Noi di BILLY, come sempre, abbiamo molte domande e poche risposte, ma molte ipotesi e parecchi possibili inciampi, e ribadirlo c’è parso il modo migliore per cominciare questo 2025, che rappresenta l’alba di un nuovo corso per la nostra rivista preferita.