Quarant’anni di Paris, Texas.
Quarant’anni dopo tornano al cinema le coordinate geografiche più celebri del cinema di Wim Wenders, quelle che nel 1984 l’avevano consacrato maggiormente tra gli autori europei più importanti dell’epoca.
Il restauro in 4K di Paris, Texas, presentato alla scorsa edizione di Cannes dove proprio quarant’anni fa vinse la Palma d’Oro, è l’occasione per il pubblico italiano di conoscere l’opera di culto forse più vicina all’ultimo film del regista, Perfect Days, uscito proprio all’inizio di quest’anno grazie al quale il nome di Wenders è tornato a essere famigliare tra le nuove generazioni di spettatori. Un’affinità cinematografica che motiva il forte favore popolare dell’ultimo film tra il nostro pubblico, come non era più riuscito a fare da tempo. Che sia Tokyo o il Texas, ci ritroviamo a seguire due personaggi soli e quasi privi dell’uso della parola, un’assenza comunicativa che nasconde profonde ferite famigliari. Nel mezzo della routine del paesaggio metropolitano di Tokyo, o tra le sconfinate vedute del West americano, Wenders ha ritrovato il motivo fondante del suo cinema: il viaggio in uno spazio geografico con cui congelare il corso del tempo di un’immagine, e oltre di essa un passato da scrutare.
Si riparte dal berretto rosso di Travis che pigmenta le sabbie del deserto americano, dalla macchina da presa volante di Wenders che apre la sua odissea famigliare ai tempi di Ronald Reagan.
Travis è Harry Dean Stanton, sua moglie Jane è Nastassja Kinski: la coppia più improbabile che potesse animare gli schermi dell’epoca. Più di 35 anni di distanza intercorrono tra i due personaggi/attori, che avevano già lavorato insieme pochi anni prima nel disastro produttivo di Francis Ford Coppola, il suo Un Sogno lungo un giorno con cui la New Hollywood deponeva le armi. Proprio da quell’esperienza, con Coppola come produttore, Wenders si trascinava dietro il fallimento della sua prima opera statunitense, Hammett Indagine a New York, un progetto che lo aveva trattenuto a Hollywood per tanti anni lasciandogli solo una grande insoddisfazione una volta ritornato in Europa. Nastassja Kinski intanto era una delle giovani attrici e modelle emergenti più ricercate di Hollywood. Dopo aver esordito proprio con Wenders nel secondo film della Trilogia della Strada, Falso Movimento, aveva lavorato con autori come Roman Polanski, James Toback e Coppola; Harry Dean Stanton era invece un attore già di mezza età, più o meno noto tra i tanti ruoli secondari (se non proprio di contorno) di una carriera iniziata negli anni ’50, qui nel suo primo e vero ruolo da protagonista.
All’inizio degli anni Ottanta Paris, Texas, già a partire dalla crasi geografica del titolo, segna quindi un crocevia di storie, ambizioni e cicatrici produttive nei rapporti cinematografici tra Europa e USA: per Kinski e Wenders era l’occasione di tornare a lavorare insieme dai tempi di Falso Movimento, per Wenders di tornare a raccontare gli Stati Uniti che aveva sognato fin da piccolo, da bambino cresciuto con i film di John Ford nei cinema tedeschi degli anni Cinquanta e Sessanta. Un film americano come desiderava lui e senza il fardello di un modello produttivo oramai incompatibile per le ambizioni dei registi statunitensi degli anni Settanta, quando autori come Scorsese, Coppia e Cimino erano alle prese con un ripensamento del loro cinema dopo i tonfi produttivi dei loro ultimi film. Davanti a tutto questo scenario, un regista europeo come Wim Wenders firma una delle opere statunitensi più importanti e libere degli anni Ottanta. La strade che avevano animato i viaggi dei suoi film precedenti, trovano in Paris, Texas il loro dialogo cinematografico più compiuto con una Nazione che aveva sempre animato il movimento dei suoi personaggi, dalla prima parte di Alice nelle città all’ultima di Lo Stato delle Cose, dall’Amico americano interpretato da Dennis Hopper ad Amburgo alla voce di Bob Dylan cantata dai protagonisti di Falso Movimento in viaggio per la Germania. Forse ci mancava solo una esperienza produttivamente fallace proprio con Coppola per completare il percorso americano di Wenders fino a quel momento, e all’indomani di Hammett, proprio l’incontro con una figura come Sam Shepard si rivela cruciale per allineare la poetica di Wenders con la sensibilità di una cinematografia che negli ultimi decenni aveva fatto della strada americana il motivo culturale essenziale. Shepard, che aveva firmato la sceneggiatura di un’altra opera esule di un regista europeo nel West come Michelangelo Antonioni (Zabriskie Point), si portava dietro tutto quella tradizione culturale che si tramandava dalla narrativa di Steinbeck, Faulkner e Kerouac ai canzonieri musicali di, in particolare tra i tanti, Dylan, Joni Mitchell e Patti Smith.
Nell’immagine di un padre e un figlio in viaggio che imparano a riconoscersi, il Travis di Harry Dean Stanton, taciturno e solitario proprio come un altro Travis interpretato da Robert De Niro pochi anni prima, condivide con l’opera di Martin Scorsese un omaggio a Sentieri Selvaggi di John Ford nella ricerca di una donna perduta nel West. Lontano dai modelli degli eroi hollywoodiani che popolavano gli schermi di quegli anni, Wenders ritrovò nell’andatura chaplinesca di Stanton uno stato delle cose che circonda gli orizzonti selvaggi di Ford, laddove Scorsese e Schrader li avevano sostituiti con la metropoli di New York. Il desiderio di un paesaggio primordiale, nella foto di un lotto di terra deserta dove Travis spera di riunire la sua famiglia, non viene meno al disvelamento di un West che sta mutando. Gli scorci urbani che Travis e il piccolo Hunter incontrano lungo la strada acquistano nuove tinte espressioniste dove gli spostamenti sulle auto hanno sostituito definitivamente i cavalli, e a questi non rimane altra opzione per farsi immagine se non come neon elettrici nella notte, artifici cromatici che si fanno naturali nella fotografia di Robby Müller. Alla fine del viaggio non rimane altro che la musica di Ry Cooder per raccontare un futuro rimpianto, il ricordo analogico di alcuni giorni perfetti con Jane e Hunter, quarant’anni fa come oggi, lasciandosi la strada di una vita alle spalle.