Cronache veneziane

Cronache veneziane

Capitolo #1. Una doverosa e discutibile premessa

Partiamo da un presupposto. BILLY è a Venezia nonostante un evento increscioso abbia funestato i giorni precedenti la Mostra. La misteriosa commissione preposta all’assegnazione degli accrediti stampa – la quale, ci spiega con mano anonima via mail, quest’anno si deve attenere a norme severissime e rigidissime, imposte da non si sa chi – ci ha negato i due miseri accrediti che da sempre ci vengono concessi tanto da Venezia quanto dagli altri festival sparsi per l’intero globo terraqueo.

La cosa non stupisce, per certi aspetti, dato che la nostra rivista preferita e amatissima non è sicuramente tra le più diffuse sul glorioso suolo patrio, virtuale o meno che sia, ma di sicuro un po’ amareggia – sia detto senza polemica – di quell’amarezza che sa di aria insalubre, mista di vanagloria, autoritarismo e spocchia, che somiglia tanto a quella stessa aria che ammorba il paese intero, e che ha un retrogusto che non ti sbagli, lo riconosci subito.

E infatti, a conferma di ciò, le proiezioni riservate a press e industry trascorrono non esattamente esaurite in ogni ordine di posti, nonostante il tentativo di popolarle aprendole a tutti gli altri accreditati (salvo ovvia prenotazione a ventiquattr’ore dall’inizio del film), mentre le altre proiezioni, ed è nota positiva, si affollano e si completano in pochi minuti, nonostante uno strano meccanismo di opzione dei biglietti che ricorda un po’ la borsa di New York.

Sia chiaro, anche se non dovrebbe essere necessario specificarlo: non è un problema di chi sia stato accreditato e chi no, di chi ha il pass verde (che per chi organizza il Festival sembra valere meno di un raccomandato di Lupi) e chi quello rosso o blu, il problema sta nel manico, il problema è il potere e il suo esercizio, è nell’idea che si vuole proporre di questa Venezia (di questa Italia?), sta in ciò che si pensa di essere, nella cieca idea di Paese da cui si proviene, in cui i piccoli sono poco più di un elemento di disturbo che non produce lustro.

Detto questo, è utile sapere che però BILLY resiste di una resistenza che è quella fatta da piccole e grandi riviste indipendenti che provano a contribuire a guardare le cose da un altro punto di vista, per quanto possono, magari con uno sguardo strabico e inclusivo e scandaloso e non riconciliato. Sia chiaro: è un’azione che fanno anche molte delle riviste giustamente accreditate, le stesse a cui BILLY, lo sappiamo, guarda come a un modello.

Ma tutto torna, in realtà, a pensarci bene: il decreto sul Tax Credit, di cui parleremo brevemente nella prossima puntata, che, se non corretto, rischia di uccidere il cinema indipendente italiano; l’ora tagliata al film di Guadagnino, in cui si favoleggia di poco graditi rapporti omosessuali espliciti; l’assenza pressoché totale della questione palestinese e molti altri indizi che sembrano suggerire una sostanziale mancanza di coraggio, un accomodarsi a non disturbare chi guida.

Il tutto, mentre questo primo venerdì del festival ci vede rimbalzati dall’ufficio accrediti perché siamo in ritardo di cinque minuti. È giusto così, nella Venezia dei vaporetti che arrivano in orario.


Capitolo #2. La guerra

A Venezia c’è la guerra, nei primi giorni della Mostra. La guerra per salire in traghetto alla fermata del Casinò, per trovare la fermata giusta che Maps ti nasconde, la guerra per prendere da mangiare durante il tramonto a Isola Edipo, per tornare a casa in mezzo alla mezz’ora di dedalo di calle che ci separa da San Zaccaria.

Ma c’è anche la guerra — più dura e cruciale — contro il nuovo decreto ministeriale sul tax credit, che qui a Venezia, in un Italian Pavillon rigorosamente privo di aria condizionata (a contrario di quello dedicato alla Veneto Film Commission), viene prima discusso dagli autori e dai produttori, e poi malamente illustrato e difeso dai rappresentanti del governo, guidati da un’imbarazzante e ritardataria Borgonzoni e da un altrettanto indifendibile Borrelli, incapaci di rispondere a semplici domande e apparentemente in malafede nel difendere un dispositivo destinato a stroncare, con tutta probabilità, buona parte del cinema indipendente italiano. Ma di questo la nostra Direttrice responsabile ci spiegherà tutto ciò che è necessario sapere, prima che sia troppo tardi.

E infine c’è la guerra sullo schermo, che al momento ci pare essere l’elemento portante di questa 81ª edizione della manifestazione cinematografica più antica del mondo. Non il conflitto in senso drammaturgico, elemento portante, come sappiamo, di ogni narrazione, ma proprio la guerra, sia come «conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, ecc., nella sua forma estrema e cruenta, quando cioè si sia fatto ricorso alle armi», ma anche spesa nella sua variabile figurativa di «serie di atti ostili tra due o più persone o gruppi».

Da una parte ci sono le radici della guerra per l’estenuante “Why War” di Amos Gitai, un film saggio maldestro che parte dalle strade di Tel Aviv di oggi, in fibrillazione contro Netanyahu, per approdare al punto interrogativo che manca al titolo, che è all’inizio di tutto ed è posto dal carteggio tra Einstein e Freud all’inizio degli anni ’30.

Dall’altra il “Campo di battaglia” di Gianni Amelio, dove la guerra è la trincea lurida del primo conflitto mondiale e parla le lingue dialettali di un’Italia ancora informe, o de-formata, che si avvince al coraggio della diserzione e del rifiuto.

Ma poi c’è quella guerra materna allagata dal desiderio umano di pace, finalmente, e di “normalità”, oltre l’amore, fatta di quella fatica quotidiana che annulla la vita nell’eccezionalità di un figlio con un difetto cognitivo e di cui “Mon inseparable” di Anne-Sophie Bailly è un urlo disperato, e c’è, viceversa, quella guerra figliale, appena moralista, che resta violentemente aggrappata al desiderio di una presenza impossibile, quella di una madre che svanisce, evapora, sbaglia e fallisce, una lacerazione di cui racconta “Il mio compleanno” di Christian Filippi.

Oppure, ancora, la guerra anacronistica dell’ultimo pastore corso della costa che si oppone, anche attraverso una lingua che è un miracolo di suoni, alla mafia locale foraggiata dal Capitale più disumano, interessato alla speculazione edilizia in funzione turistica, con cui ci folgora il western contemporaneo di Frederic Farrucci, “Le Mohican”.

E infine la guerra inattuale dell’ultimo capolavoro di Lav Diaz, “Phantosmia”: esterna, interna, psicologica, guerreggiata, morale, storica, umana, fisica, visuale, geografica, cinematografica… Una guerra vera, in cui si muore, si vive, si sopravvive, e (non) ci si riscatta.

E a proposito del maestro filippino, un’ultima nota, a margine. Il cinema che stiamo vedendo è un cinema stretto. Spesso in 4:3, abbonda di primissimi piani e indugia in profondità di campo ridottissime. Lo sguardo si comprime, non riesce o non vuole o non può cogliere la visione d’insieme, sentendo in maniera pesante il fuori campo, che è un’ipotesi. È difficile guardare oltre? È impossibile spingere l’immagine al di là del proprio più prossimo confine, sapendo che per continuare a vedere devo continuamente spostare il mio punto di vista?

L’unico — o quasi — che riesce ad “allargare lo sguardo” è proprio Lav Diaz, con i campi medi e lunghi, le immagini statiche e l’assenza di sfocature, quadri viventi in cui accade non tutto ciò che deve accadere, perché il fuori campo resta qui, invece, un elemento cruciale di prossimità e dialogo, ma tutto ciò che è legittimo vedere.


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