Appunti dal Cinema Ritrovato 2024
Tanti sono i film che si possono vedere al Cinema Ritrovato, ma altrettanti quelli a cui bisogna rinunciare. È un po’ il dilemma di base di ogni festival cinematografico, ma mai come per il festival di Bologna la questione si pone in maniera così acuta, a partire ovviamente da una questione di “qualità quantitativa”: un’abbondanza di 16 sezioni per un totale di 480 film selezionati da 12 curatori, oltre ovviamente a una indispensabile sinergia che coinvolge da anni diverse istituzioni, collaboratori, archivi e fondazioni che si riuniscono da tutto il mondo per trasformare il centro storico del capoluogo della Regione nella Mecca della cinefilia, un luogo in cui migliaia di appassionati di cinema del passato, smaniosi di immergersi a capofitto, dalla mattina alla sera, si ritrovano nel buio delle sale mentre fuori ribolle il primo caldo estivo. Una mappatura cinematografica fitta e labirintica con cui fare i conti giorno per giorno, a partire da una programmazione che si dipana lungo i portici che collegano gli spazi della Cineteca di Bologna, del Cinema Arlecchino, del Jolly, dell’Europa e le immancabili proiezioni in Piazza Maggiore, quest’anno affiancate anche dal nuovo Cinema Modernissimo, fresco di una nuova sgargiante entrata inaugurata a pochi giorni dall’inizio del festival. Si amplia quindi il bacino d’affluenza rispetto alle proiezioni da scegliere e quelle a cui rinunciare, tra nuovissimi restauri in arrivo da Cannes, Berlino e dal Far East di Udine, anteprime internazionali e ovviamente immancabili proiezioni con vecchie pellicole per soddisfare il feticismo più agguerrito del pubblico cinefilo di prim’ordine, di cui fanno parte anche le personalità illustri del mondo del cinema ospiti in città. All’appello sono stati presenti Wim Wenders, Darren Aronosfky e Damien Chazelle, insieme a tanti altri nomi che hanno animato questa ennesima edizione del Cinema Ritrovato, un evento che da anni ci fa appassionare al recupero del cinema passato in una dimensione più performativa e dialogata col pubblico, con la città di Bologna e soprattutto con il presente, alla ricostruzione di un orizzonte di senso intergenerazionale e intercontinentale, e alla riscoperta dei film come chiavi di un sogno vissuto che deve essere prima di tutto collettivo, comunitario e partecipato, in risposta agli isolazionismi ideologici che alimentano le frizioni politiche del contemporaneo.
In ogni caso, dopo essere sopravvissuti a 9 giorni di proiezioni intensive possiamo tentare un resoconto inevitabilmente parziale, dal quale rimangono fuori alcune delle tante retrospettive che hanno colorato l’offerta di quest’anno.
Tanto per iniziare, forse non tutti sanno che il celebre illustratore Saul Bass ad un certo punto della sua carriera ha esordito alla regia con un lungometraggio, e ,ancora più probabilmente, non tutti sanno che questo primo e unico film da regista, Phase IV, è un cult della fantascienza psichedelica, dove a fare da protagoniste sono le formiche, in un rovesciamento irresistibile di quella sci-fi degli anni cinquanta minacciata da insetti giganti e mutanti (un titolo a caso: Assalto alla terra). Nel film di Saul Bass invece le formiche rimangono minuscole, a meno che non ci si trovi davanti al grande schermo della sala e dentro al gioco di (s)proporzioni del regista, per cui le riprese ravvicinatissime delle formiche ci catapultano nel macrocosmo sotterraneo di una ribellione pronta a emergere dal deserto dell’Arizona, uno spazio naturale in cui Bass riversa tutta la sua sensibilità “grafica” e intellettuale, in linea con un’indagine filosofica perfettamente in continuità con la fantascienza dal decennio precedente, primo su tutti il 2001 di Kubrick, ma anche capolavori come Gli Uccelli e Il Pianeta delle scimmie. Uscito nel 1974, alla prima giornata del festival Phase IV (in Italia Distruzione terra) ha potuto godere di una preziosa proiezione in pellicola, accompagnata da un restauro digitale del “mai visto” finale alternativo tagliato dalla produzione, un flusso psichedelico di sovrimpressioni e sperimentazioni per cui siamo abituati a riconoscere lo stile di Saul Bass nelle sue celebri title sequence.
Le formiche di Phase IV non sono state le uniche minacce naturali proiettate sullo schermo di queste giornate: tra le varie proiezioni in pellicola technicolor ospitate all’Arlecchino, c’è stato anche un momento speciale con una copia originale degli anni 70 dello squalo bianco di Jaws, il capolavoro di Steven Spielberg, maestro della New Hollywood di cui si è potuto riscoprire in sala anche il meno noto Sugarland Express, mentre dal Giappone sono arrivati alcuni dei restauri più desiderati dell’anno tra cui, sempre parlando di catastrofi animali, quello dell’iconico Godzilla, a 70 anni dal suo esordio nel capolavoro di Ishiro Honda, un film che acquista tutta un’altra dimensione apocalittica sul grande schermo. Rimane solo un po’ l’amaro in bocca riflettendo sulla mancata scelta di non aver voluto scommettere su una proiezione fuori scala in Piazza Maggiore, anche solo per il gusto di lasciarsi trascinare dall’eco assordante di Godzilla lungo i portici bolognesi.
Ogni edizione ha il suo Sacro Graal, ovvero quel titolo mai visto prima di cui si è sempre temuto di affrontare la visione da soli, per quanto leggendario e di cui si è letto, studiato e parlato tanto. Quest’anno non poteva non essere Napoleon di Abel Gance del 1927, nella mastodontica operazione di restauro presentata alla scorsa edizione di Cannes Classici dalla Cinemateque Francese. Qualcosa di travolgente, una sinfonia visiva e un poema cinematografico: tanti potrebbero essere gli appellativi per tentare di descrivere la prima parte restaurata della versione Apollo di Napoleon (quasi 4 ore di durata). Una fiumana di sperimentazioni linguistiche che parte come un romanzo d’infanzia ed esplode nell’ora e mezza finale dell’Assedio di Tolone, momento di cinema bellico puro e avanzatissimo in un’opera multiforme che non si dimentica nemmeno di essere un grande film d’avventura nella fuga elettrizzante di Napoleone dalla Corsica. Speriamo solo che questo tanto desiderato restauro di Napoleon riesca ad uscire dalle cornici festivaliere per raggiungere un pubblico ancora più vasto e stupirlo grazie alla sua inarrivabile modernità di sguardo e narrazione, quale opera imprescindibile per chiunque si interessi un minimo d’immagini.
Dal 1927 di Napoleon possiamo ricollegarci ad altre due opere del passato che risplendono nuovamente per l’inarrivabile modernità linguistica dei loro autori. Opere importanti non solo all’interno del loro contesto geografico, ma universali proprio per quella libertà formale che supera le barriere linguistiche delle tante cinematografie del mondo che si incontrano al Cinema Ritrovato. Dal Giappone un altro restauro fondamentale è stato quello di Tokyo Drifter di Seijun Suzuki, opera di genere iconica per il suo indiavolato ritmo con cui il regista ha reso memorabile la ballata di Tetsuya, yakuza solitario e diseredato in una guerra che corrode i codici d’onore della criminalità giapponese, dove si viaggia dai colori sgargianti e antinaturalistici degli interni di Tokyo ai paesaggi innevati delle città di montagna. Dall’Ucraina invece è stato possibile intercettare alcuni dei titoli con cui si è reso omaggio a Sergej Paradžanov in occasione del centenario dalla nascita, riscoprendo così uno sguardo fondamentale nel patrimonio artistico di un paese oggi lacerato dalla guerra. Per chi non l’avesse mai visto prima, trovarsi di fronte alla folgorante proiezione in sala di Le ombre degli avi dimenticati è un’esperienza unica per rendersi conto dell’importanza capitale di Paradžanov nel cinema internazionale negli anni Sessanta, un’opera di scottante e vertiginosa inventiva che ci trasporta nel folklore dei Carpazi, paesaggio in cui si accende la tragica storia d’amore di Ivan e Marichka, immaginata da Paradžanov con uno sguardo capace di trascendere i sentimenti dell’amore e del lutto, in cui tutti gli elementi del racconto testimoniano una grande fascinazione per la dimensione popolare, ricercata con l’inesauribile creatività di un registro visivo di abbagliante e lirica psichedelia, talmente lontano dai precetti realisti del cinema sovietico che purtroppo fece guadagnare al regista gli inevitabili provvedimenti censori, fino all’incarcerazione negli anni settanta.
Tra le tante retrospettive forse quella che rende più manifesta la missione del Cinema Ritrovato è quella di Cinemalibero curata da Cecilia Cenciarelli. Una serie ricchissima di appuntamenti che ogni anno testimoniano la necessità degli sforzi delle Cineteche, dei laboratori di restauro e delle fondazioni di più di 51 paesi per salvare dall’oblio opere imprescindibili per aprirsi a sguardi, identità e memorie culturali di cinematografie meno conosciute, e permettere loro di riappropriarsi di uno spazio di senso e dialogo con la contemporaneità. E’ il caso di Bona, opera di Lino Brocka, maestro del cinema filippino che racconta la soggiogazione della sua giovane protagonista ai voleri (e piaceri) di Gardo, attore di B-movie per cui lei nutre una perversa adorazione, che si trasforma in un devoto servilismo fino alle drammatiche conseguenze che squarciano le ansie di una società patriarcale come quella filippina, ritratta criticamente nella forma popolare di un melodramma neorealista.
Anche il cinema di Ousmane Sembène è al centro di un importante lavoro di riscoperta e preservazione, di cui si era già potuto vedere Ceddo l’anno scorso in occasione del centenario dalla nascita del regista. Quest’anno con il restauro di Camp de Thiaroye il pubblico ha avuto l’opportunità di confrontarsi con il valore inestimabile del cinema africano e le ferite storiche del colonialismo sulla memoria della popolazione africana, in particolare nel contesto poco conosciuto della Seconda Guerra Mondiale, dove l’attesa dei giovani tiralleurs senegalesi di ritorno dal fronte europeo si scontra tragicamente con la violente politiche del governo francese in Senegal. Premiato nel 1988 con il gran premio della giuria di Venezia, dopo essere stato rifiutato per ovvi motivi a Cannes, il film di Sembène ha un passo rigoroso nella ricostruzione degli eventi e dei rapporti tra i soldati, privo di facili sensazionalismi e asciutto nella messa in scena con cui scorre inesorabile fino alla tragedia finale. Tra le tante altre opere presenti nella sezioni figurano i nomi di sguardi femminili come quelli dell’iraniana Marva Nabili, dell’algerina Assia Djebar e della francese Sarah Maldoror, quest’ultima presente con una trilogia di corti documentari sulle festività del Carnevale nelle isole di Capo Verde e in Guinea-Bisseau, all’indomani dell’indipendenza dal Portogallo. Un documento storico che esalta l’importanza della cultura e della creazione artistica come forma di resistenza alle pressioni coloniali e quale legame nell’unione pacifica tra i due paesi. Dalla Siria invece è stato possibile conoscere Mohammad Malas, regista di al-Leil, che ha incontrato il pubblico insieme a Ossama Mohammad, sceneggiatore del film e regista di un altra opera presente come Nujum An-Nahar. In particolare al-Leil (The Night) ha visto la luce in sala con la proiezione di una vecchia pellicola 35mm, trasportandoci nel personale amarcord di Malas nella città di Quneitra della Siria Occidentale, rievocata come luogo dell’infanzia del regista prima che venisse distrutta dalle truppe israeliane nella guerra del 1967. Dalle cicatrici del conflitto, il racconto è una disamina storica della questione palestinese attraverso il recupero di una memoria personale e collettiva, intima rievocazione di uno spazio e un tempo in cui ristabilire un contatto ritrovato col ritratto dei propri genitori, con le ferite della propria terra d’appartenenza.
La cinematografia giapponese quest’anno ha un posto di tutto rilievo in occasione del 70° anniversario di due opere ritrovate e restaurate per la loro importanza capitale nel cinema del dopoguerra del Sol Levante: il 1954 non è solo l’anno del già citato Godzilla, ma anche di un’opera imprescindibile come I Sette Samurai di Akira Kurosawa, che ha animato una delle proiezioni più attese di Piazza Maggiore. Gli anni in cui uscirono questi due capolavori sono anche gli stessi in cui era in attività il regista Kozaburo Yashimura a cui è dedicata la retrospettiva Tracce di modernità. Ogni anno il Cinema Ritrovato riserva uno spazio per la riscoperta di autori giapponesi meno noti, come fu il caso per Teinosuke Kinugasa l’ anno scorso, e per Kenji Misumi nel 2022. I curatori della retrospettiva, Alexander Jacoby e Johan Nordstrom, quest’anno hanno voluto omaggiare il cinema di Yashimura, selezionando una serie di titoli che vanno dal 1951 al 1960, attraverso i quali si fa la conoscenza dei memorabili ritratti femminili per cui il regista viene ricordato, tanto da essere accostato ad un gigante come Kenji Mizoguchi, e di cui prenderà le redini per dirigere Osaka Monogatari, quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo film del regista del L’intendente Sansho. Stupisce la ricchezza della galleria di protagoniste presenti in questi titoli, quasi tutti ambientati nella città di Kyoto: la ricchezza delle protagoniste di Yashimura emerge grazie ad una forte introspezione psicologica dei loro caratteri; sono donne intraprendenti e determinate che affrontano il lavoro scontrandosi con le frizioni patriarcali del Giappone in tumulto tra tradizione e modernità. Tra i tanti titoli risulta memorabile l’attenzione con cui Yashimura indaga gli spazi dei lavori tradizionali in cui vengono coinvolte le sue protagoniste, come nel caso dell’impresa di dolciumi di Onna No Saka, ereditata dalla giovane Akie nella vecchia capitale, in quello che forse è uno dei film più romantici della retrospettiva, dove la complessità dei caratteri e dei rapporti sentimentali (e di classe) lo avvicinano per sensibilità alla più nota tradizione del melodramma americano d’oltreoceano.
Il Cinema Ritrovato non si esaurisce ovviamente a questa “manciata” di titoli. Tante altre sono le retrospettive: quella interamente dedicata all’icona di Marlene Dietrich, musa nei film di Joseph von Sternberg; non sono mancate retrospettive per dare spazio a nomi meno conosciuti come quello di Anatole Litvak, Gustav Molander oppure Delphine Seyrig, la Jeanne Dielmann di Chantal Akerman, di cui si è voluto dare risalto alla sua carriera da regista, fino a indagare i dilemmi morali che si annidano nei film di DarkHeimat, rassegna curata da Olaf Möller che ci guida alla riscoperta inedita dell’Heimatfilm, il genere cinematografico più popolare prodotto dalla Repubblica Federale Tedesca all’indomani della seconda guerra mondiale, senza dimenticare le clamorose proiezioni “a luci rosse” presentate dai figli di Gerard Damiano, di cui quest’anno si è riproposta la versione restaurata di The Devil in Miss Jones, a due anni di distanza dalla storica proiezione di Gola Profonda. Non si contano inoltre i numerosi restauri di capolavori come Lanterne Rosse, Pat Garret & Billy The Kid, McCabe & Mrs Miller, I disperati di Sandor, Pepe le Moko, fino ovviamente al conclusivo Gli ombrelli di Cherbourg, la pietra miliare di Jacques Demy con Catherine Deneuve che quest’anno è stata scelta come immagine guida per tutto il festival.
Ho dimenticato sicuramente tanto e troppo, ma non avrebbe senso scendere ulteriormente nei dettagli labirintici del programma (liberamente accessibile sul sito). Di tutte le opere menzionate fino a questo punto non ho ancora parlato di un restauro intercettato un po’ all’ultimo e un po’ per caso con cui ho il piacere di chiudere le fila di questo resoconto. The Annihilation of Fish è una delle pellicole più dimenticate del recente cinema americano, un’atipica rom-com diretta da Charles Burnett, poco noto ma non meno importante regista afroamericano appartenente al movimento L.A.Rebellion che si impose alla UCLA per fondare un “cinema nero” attivo dal 1967 al 1989, di cui uno dei titoli più celebri è il neorealista Killer of Sheep dello stesso Burnett. Su tutto un altro territorio si muove invece Annihilation of Fish, bizzarra commedia tanto quanto il titolo che fa riferimento nientemeno che al protagonista Fish, interpretato da un magistrale James Earl Jones, anziano signore preda di continui scontri fisici con un demone invisibile, al quale si affianca Poinsettia (Lynn Redgrave), convinta di essere sposata col fantasma di Puccini e ovviamente ossessionata dalla Madame Butterfly, intonandola senza preoccuparsi troppo di disturbare Fish nella serena pensione di Los Angeles in cui si ritrovano prima dirimpettai e poi, dopo alcuni iniziali disaccordi, inevitabilmente amanti. E’ un grande film d’amore e forse una delle grandi insospettate sorprese del festival, pervaso da una tenera malinconia che anima i demoni interiori della loro vecchiaia, minacciata dalla solitudine contro cui devono riscoprire il bisogno salvifico della compagnia. Come ogni grande commedia sofisticata, il film si regge su un registro semplice e scorrevole, arricchito da un’irresistibile costruzione comica delle situazioni più assurde che Fish e Poinsettia affronteranno insieme. Una piccola grande opera tutta da riscoprire grazie al necessario lavoro di Dennis Doros della Milestone Films, presente alla proiezione per raccontare gli insistenti sforzi, durati ben 19 anni, per riportare alla luce un film mai così dimenticato come questo, seppur uscito solamente nel (lontano) 1999.
Perché al Cinema Ritrovato dietro alle storie dei film che si scoprono o riguardano per l’ennesima volta c’è innanzitutto una storia di ricerca, di lotta e resistenza contro il corso della Storia, che siano film oscurati dai poteri politici o semplicemente film svaniti nell’aria per anni, come Annihilation of Fish. Storia di una ricerca del loro tempo perduto forse ancora non decaduto, un secondo tempo in compagnia, al buio, nella sala di un cinema ritrovato e ripetuto oltre i titoli di coda. The End. Ende. Fin. 終わり. Fine.