I DANNATI – IL CORAGGIO DI ROBERTO MINERVINI REGISTA
Scavare nel passato, per trovare un senso al presente. In The Damned (I dannati) di Roberto Minervini, viene raccontata una storia piccola – dentro la Storia, quella grande e accademica – di uomini dimenticati: sullo sfondo della Guerra Civile Americana un gruppo di soldati unionisti viene inviato in Montana per perlustrarne le terre. Il viaggio diventa confronto costante con le paura del nemico sudista, con le ragioni alla base della partecipazione al conflitto, con i dubbi sul futuro personale dei soldati e dello Stato Americano.
Minervini, regista marchigiano trapiantato negli Stati Uniti, si è affermato, negli ultimi quindici anni, come osservatore di alcuni dei fenomeni sociali caratterizzanti dell’America “altra”.
Non è l’unico. Cosa lo ha distinto?
In primis, la forma. Minervini è esponente di quel filone cinematografico di cinema del reale, termine abusato e non ben definito, in cui si ibridano elementi di finzione e documentario, spesso sfumandone i confini, con un risultato che mette sullo stesso piano creatività e testimonianza, mantenendo vivo un realismo tipico della tradizione cinematografica europea. Lo stesso Minervini, ai tempi del suo secondo lungometraggio Low Tide, aveva puntualizzato come il cinema a lui caro fosse quello incentrato su esperienze reali e autentiche (non vere; reali e autentiche).
Da questo punto di partenza, deontologico, si arriva ai contenuti e alla rappresentazione di persone, e personaggi, con una nitidezza tale da farli sentire vicini, pulsanti. Minervini conosce i suoi soggetti, ne conquista la fiducia; solo alla fine li riprende, facendoli a volte partire da un canovaccio. Come con i fuggitivi, ognuno a loro modo, di The Passage (2011), alla ricerca della redenzione nel deserto del Texas; madre e figlio, e le loro vite di periferia, in Low Tide (2012); la crisi esistenziale e religiosa di Sara, in Stop the Pounding Heart (2013); odio, amore, guerra e morte in Louisiana: The other Side (2015); emarginazione e violenza nella comunità afroamericana in What You Gonna Do When the World’s on Fire? (2018)
Con I dannati, Roberto Minervini prosegue allora nella sua analisi culturale degli USA, modificando, con coraggio, i suoi due aspetti distintivi: abbandona infatti la pratica documentaristica, per accogliere un western bellico e filosofico; torna indietro nel tempo, alle origini della società americana, e descrive, tramite le poche parole dei personaggi, lo spettro delle motivazioni che li hanno spinti a intraprendere volontariamente l’impresa militare per la causa degli Stati del Nord.
Insomma, cosa si trova alla base dell’idea di libertà di questi soldati, così preziosa da rischiare la vita? Dio, l’emancipazione, i diritti civili, un’ideale ormai dimenticato, trasformatosi, con nichilismo, in inerzia, perché questo è ciò che si deve fare per la causa americana.
Sono arrivate critiche a Minervini per aver messo in bocca parole moderne a uomini dell’800, tradendo così il modo fedele con cui nei film passati aveva rappresentato i soggetti e le loro idee. Ma I dannati non è un documentario, non ha pretese di realismo. È un film di genere, con codici notoriamente più liberi; strumento, il genere, di cui Minervini si serve per costruire la sua analisi antropologica dell’uomo americano, senza semplicismi né posizionamenti politici. Il concetto di libertà menzionato passa infatti per molte interpretazioni quanti sono i personaggi parlanti; interpretazioni alla base dei dilemmi e dei paradossi che dilaniano la società americana odierna; quella che lo stesso Minervini ha già raccontato più volte. Gli antagonisti, i Confederati, sono in ombra e sfuggenti, mai ripresi stretti (cosa che invece fa la camera per la maggior parte del film, in una reminiscenza del passato documentaristico). Noi, il nemico, non lo vediamo in faccia. Quasi a dire, metaforicamente, che non si sa come sia fatto veramente il pericolo, nemmeno oggi.
Per analizzare I dannati bisogna quindi andare oltre i linguaggi della forma cinema e confrontarsi con un livello ulteriore, di valori, di antropologia, di ricerca delle radici di una nazione e della sua forma mentale.
Può non piacere, per il ritmo e la sospensione di alcuni punti di trama, ma I dannati rimane la prova inconfutabile del coraggio di un regista che poteva proporre un altro prodotto dei suoi, adagiandosi; ma che, fortunatamente, non l’ha fatto.