Vincent deve morire, di Stéphan Castang
Parte con i toni della commedia, finisce immerso nell’inquietudine di un thriller post-apocalittico. Vincent deve morire, opera prima di Stéphan Castang, è la prova che, servendosi con coscienza del linguaggio tipico del brivido classico, si può descrivere, in modo acuto e intelligente, la società ereditata dal periodo pandemico.
Vincent (Karim Leklou) fa il grafico a Lione. Senza alcun motivo inizia a subire violenze dalle persone che lo circondano; colleghi, conoscenti o semplici passanti si scagliano contro di lui per ucciderlo. Basta, semplicemente, che Vincent incroci il loro sguardo. Il surrealismo lascia spazio al panico e all’affanno, in un evolversi del racconto che vede il protagonista cercare una soluzione razionale alla sua maledizione: ritirarsi nella casa di campagna del padre sperando di non incontrare nessuno. Ma altri, e sempre di più, vivono la sua stessa condizione.
Castang e lo sceneggiatore, Mathieu Naert, decidono di concentrarsi sulla paranoia, sull’isolamento, sull’alienazione contemporanea. In Vincent deve morire l’infermità risiede nel corpo stesso della persona. Non si può infatti sfuggire al destino di essere vittime di questo odio incondizionato da parte degli altri esseri umani; o, al contrario, di provarlo verso il prossimo. “Siamo noi i malati, o gli altri?” si chiede Vincent. Può infatti capitare a tutti; in un crudele destino personale, e sociale, randomico, che tanto ricorda i caratteri di contrazione di un virus e, di conseguenza, il giudizio perentorio riservato agli infetti. Nell’escalation determinata dalla violenza, il patto sociale implode, i confini determinati dalle parole d’ordine del sistema securitario, direbbe Deleuze, si sfaldano, perché sono gli stessi caratteri di tale sistema a rivelarsi inadatti nel rispondere al caos dell’imprevedibilità. La società è costretta a una diffidenza diffusa tramutatasi in violenza verso il malato, così costretto a isolarsi nell’emarginazione. Ma quando ognuno diventa passibile di tale pena l’orrore prende il Paese, e la Francia si trasforma in un inferno che sembra uscito da una delle derive care all’ultimo, e apocalittico, Houellebecq.
Vincent deve morire è prova della consapevolezza cinematografica dei suoi autori. Nei punti di trama appropriati, optano per passaggi di intreccio in grado di mantenere vivo il racconto, senza mai scadere nel banale o nel grottesco. La musica, di sintetizzatori e suoni concreti, anticipa e introduce inquietudini e paranoie. Le inquadrature si allargano, accompagnano l’espansione endemica dell’odio, terminando in paesaggi ampi e vuoti rappresentati con una sensibilità visiva epigone del cinema, immenso, di Chloé Zhao.
Usciti dalla sala, l’unico pensiero è sperare che, incrociando lo sguardo di altre persone, queste non provino ad ammazzarci. Se lo scopo era veicolare i caratteri di un clima di diffidenza e terrore, allora Vincent deve morire è un film più che riuscito.