Perfect Days – opporre resistenza alla dittatura del tempo
Può un paradosso essere il fondamento di una rivolta? Una rivolta gentile, fatta di gesti reiterati e consapevoli può opporsi alla febbrile andatura del mondo dei consumi? E noi, se decidessimo di lottare a questo modo, galleggiando, sospesi, tra il basso e l’altissimo, potremmo essere finalmente felici?
Il protagonista di Perfect Days è sospeso fra il basso (i bisogni corporali del mondo, letteralmente, di cui si fa carico) e l’altissimo (il cielo sopra Tokyo, a cui volge lo sguardo ogni mattina). Nel suo modo di abitare il mondo, nella dedizione silenziosa con cui si impegna nel lavoro di pulizia delle toilette pubbliche, nei suoi occhi curiosi ma mai invadenti, nelle abitudini analogiche, nel suo amore profondo per il mondo, nella sua abilità nel rifuggire la fretta e il conformismo, c’è un embrione di resistenza.
C’è in Perfect Days un germe di rivolta che ci dice di opporci al tempo dettato da un’economia del consumo infestante. Un film in cui i più disincantati coglieranno qualche bagliore di retorica, ma soprattutto una non-storia che sa suggerire un nuovo sguardo: nuovi occhi per riordinare il tempo, per aggiustarlo.
Perfect Days non è solo l’ultimo film di Wim Wenders: è uno dei suoi grandi film. Ispirato dal cinema di Yasujirô Ozu, verso cui Wenders ha sempre nutrito ammirazione (fin dai tempi di Tokyo-Ga, film con cui decise di rendergli omaggio nel 1985), Perfect Days né richiama lo stile di sottrazione e essenzialità. L’Hirayama di Wenders (protagonista che porta lo stesso nome di quello de Il gusto del saké di Ozu) sa aggrapparsi al sapore della vita, replicando le sue azioni, giorno dopo giorno, senza lasciarsi travolgere dalle colpe e dal passato che fanno capolino nei suoi sogni in bianco e nero. Le musicassette, la fotografia analogica, la dignità nel lavoro, le pagine di Le Palme selvagge di Faulkner, probabilmente già lette in altre occasioni: una routine che contrasta vigorosamente, nella sua serafica reiterazione, la perdita di senso imperante della modernità.
La noia non è il male che l’uomo moderno è chiamato a combattere brandendo il grimaldello del consumo spasmodico, ma può essere l’energia propulsiva da cui far nascere una rivolta.
Gli abissi di vita che abitano nelle espressioni di Kôji Yakusho, attore straordinario che in questo film riesce a far parlare i silenzi, ci suggeriscono proprio questo: anche ascoltando un racconto anti-narrativo come il suo, si può aspirare al capovolgimento della narrazione contemporanea.
Spogliato dalle parole, dalle gesta e dai tormenti, edificato sui vuoti, su di un nucleo di sofferenza che resta fuori campo, alluso, mai offerto allo spettatore avido di emozioni, Perfect Days è in totale controtendenza. E per questo ha il sapore della resistenza.
Perfect Days è in controtendenza rispetto a un’idea eccitante e muscolare di cinema. È in controtendenza rispetto alla concezione di racconto tradizionale, inteso spesso come il susseguirsi di didascalici episodi con intensità sempre crescente. È in controtendenza perché affrancato dalle dittature del climax, del sesso, della violenza, delle grandi speranze che ogni buon protagonista che si rispetti è chiamato a sperimentare.
In Perfect Days non ci sono azioni, solo ripetizioni, tantomeno soluzioni, solo domande ancora aperte. È un film che, incredibilmente, si limita a mostrare.
È ancora una volta un cinema on the road quello di Wenders. Ma se al confine tra Messico e Stati Uniti di Paris, Texas si veniva travolti dalla voglia di disperdersi, a Tokyo affiora il desiderio di ritrovarsi.
Hirayama (Koji Yakusho) si sveglia all’alba, si lava i denti, si sistema meticolosamente i baffi, annaffia le piante e, indossata la sua tuta blu su cui svetta orgogliosa la scritta Tokyo Public Toilet, va al lavoro con il suo furgone Dahiatsu. Caffè freddo al distributore, musicassette rock anni Settanta, e il necessario per pulire i bagni pubblici: questo è tutto ciò che gli occorre. Non ha affetti stabili, solo un assistente irritante e per nulla sveglio.
La sua vita è scandita da azioni che si ripetono identiche ogni giorno: la pulizia delle toilette pubbliche, il sandwich al parco, le foto agli alberi, la semplice cena nel solito locale, poi il rientro a casa, la lettura sul futon della sua essenziale abitazione e ci si addormenta. All’alba si ricomincia.
Si può pensare che Hirayama nella sua quotidianità ossessivamente reiterata abbia trovato un modo per ricucire le ferite, per sottrarsi al dolore. Ma c’è di più. Lui sorride, sorride mentre osserva le cose accadere, mentre gioca a tris con qualcuno che non conosce, mentre calpesta le ombre con un uomo che ha bisogno di essere consolato.
La malinconia e le preoccupazioni si infrangono su uno scoglio di profonda quiete e consapevolezza, espressa nella cura per sé stesso, per gli altri e per l’ambiente in cui vive.
Ma la vita non è poesia, o almeno sappiamo non essere solo questo: è crudele, ingiusta, ridicola, senza senso. Non è silenzio, è caos; non è candore, è sudiciume. E allora a cosa pensa Hirayama?
Wenders, così come Ozu, piazza la macchina da presa molto in basso, all’altezza del futon, al livello dei personaggi che guardano verso le fronde degli alti alberi. Eccolo l’impatto soverchiante che ha la vita, che rende impotenti, e minuscoli, e insignificanti.
Si guarda in alto per immaginare un conforto, per restare sospesi tra separazione e partecipazione.
Hirayama è custode di uno spazio, temporale e spirituale, tutto suo, analogico, che si oppone alla logica dei consumi, che resiste. Ma allo stesso tempo partecipa alle difficoltà del mondo, ha la capacità di stabilire un silenzioso contatto con il prossimo.
Il sole che Hirayama guarda ogni mattina, quando esce di casa, è lo stesso che illumina il suo volto sul finale, in una scena in cui riso e pianto non si distinguono più chiaramente. Il paradosso dell’esistenza di Hirayama è la metafora della precarietà della nostra di esistenza, ma anche una valida risposta al nichilismo: “un’altra volta è un’altra volta; adesso è adesso”, recita saggio Hirayama nel film. Un’altra volta è un’altra volta, la resistenza è adesso, aggiungiamo noi.