TRUE DETECTIVE: NIGHT COUNTRY
Nel buio della nostra contemporaneità esce True Detective Night Country, un Alaska di disordine narrativo in questi tempi oscuri dove l’estetica della bella forma priva di sostanza regna nell’inconsistenza.
Un trionfo di luoghi comuni e jumpscare insensati, scene ricche di aesthetics dal clima nordico e giubbotti dal marchio Carhartt.
Un “bulirone” di accenni incoerenti e non sviluppati su ambientalismo, femminismo, colonialismo, corruzione, giustizia privata, e chi più ne ha più ne metta, personagge dure in tutto e per tutto che però agiscono nello stesso modo del patriarcato violento che esse stesse rinnegano cadendo nel luogo comune di tizie toste e virili insomma “con le palle” altrimenti poco interessanti.
Quota più gettonata in tutta la serie: fuck shit christ’s sake.
Eppure non mancano esempi di detective al femminile non necessariamente mascolinizzate come la stessa Jodie Foster nel Il Silenzio degli innocenti o Rachel Anne McAdams proprio nella seconda stagione di True Detective.
Se nella prima stagione le storie abitavano altre storie che caratterizzavano i personaggi dandogli uno spessore psicologico, un carattere, un passato e poi di conseguenza un’immagine, Night Country superficializza questi tratti fino a renderli inutili, ad esempio abbozzando in modo ripetitivo la visione di flashback di cui in fondo non si saprà mai nulla di concreto, esagerando emozioni chiaramente ipocrite e ponendo quindi una storia vacua al servizio di un immagine degna di Pinterest.
L’evoluzione di True Detective sembra rispecchiare il declino di noi stessi: Pizzolatto poneva domande esistenziali in protagonisti cinici, nichilisti, dilaniati dal dolore e dai conflitti interiori le cui immagini raccontavano la loro storia, la loro mentalità e il loro stato d’animo, López elimina le domande e lascia che a regnare sia la forma e di conseguenza il caos. Non suona familiare?