Non c’è CSI senza La parola ai giurati

Non c’è CSI senza La parola ai giurati

È il 13 settembre del 2001: le Torri Gemelle sono appena state abbattute, George W. Bush sta già preparando l’invasione dell’Afghanistan e nelle case dei fortunati italiani abbonati a Tele+ – per chi non lo ricordasse, l’antenato di Sky – entra prepotentemente CSI: Scena del crimine, una vera e propria rivoluzione nel genere poliziesco. Sicuramente la serie procedural più conosciuta al mondo, CSI: Scena del crimine ha ispirato ben quattro spin-off, un’infinità di film e altre serie tv partite da presupposti simili o uguali e addirittura una sorta di teoria criminologica, il cosiddetto “Effetto CSI“, che identifica il cambiamento di percezione delle persone relativamente alle indagini e alle perizie scientifiche. Cosa, questa, che se da un lato ha contribuito ad aumentare la consapevolezza sociale su questo tipo di attività (lato buono), dall’altro ha anche aiutato criminali provenienti da ogni dove a eseguire i propri reati in modo sempre più attento (lato cattivo).

L’arrivo di CSI sui nostri schermi segna dunque un momento importante tanto a livello seriale quanto sociologico. Ma se questo prodotto ha, forse con una buona dose di iniziale inconsapevolezza, segnato tanto la serialità successiva, una domanda sorge spontanea: cosa ha segnato CSI? Quali pezzi di storia cinematografica e/o seriale hanno tracciato il percorso che, arrivato al 6 ottobre del 2000 per gli statunitensi e al 13 settembre del 2001 per noi, ha preso poi la piega che ben conosciamo? Una delle risposte più importanti a questa domanda, il primo passo di una strada lunga quasi 50 anni, sta ne La parola ai giurati, film capolavoro del 1957 con un bel po’ di candidature agli Oscar e ai Golden Globes all’attivo e un Orso d’Oro in tasca. E proprio a febbraio, nel mese in cui la Berlinale riapre le sue porte e Billy si siede sulle poltrone delle sale che la ospitano, possiamo mai evitare un focus sul film che ha messo le basi del cinema e della serialità criminal come li conosciamo oggi? La risposta la sapete già.

La parola ai giurati è il dubbio che si insinua

La parola ai giurati, con il suo titolo originale 12 Angry Men, è la prima pellicola girata da Sidney Lumet, cosa che ci porta a poterlo definire con tutte le motivazioni del caso un inizio di carriera col botto. Quasi tutto il film, ad eccezione dei minuti iniziali e finali e di due scene collocate in bagno, è ambientato in un’unica stanza, quella in cui sono riuniti 12 giurati con il compito di decidere la sorte di un ragazzo processato per l’omicidio di suo padre. La scelta è di quelle colme di responsabilità, dato che con un verdetto unanime di colpevolezza il ragazzo sarebbe con ogni probabilità condannato alla sedia elettrica, ma le prove sono tutte a suo sfavore: il coltello usato come arma è identico a quello comprato da lui poco prima, un anziano vicino lo ha sentito gridare “Ti ammazzo” durante un litigio con suo padre e una testimone dice addirittura di aver visto con i suoi occhi l’omicidio.

Insomma, sembra che la condanna sia praticamente dietro l’angolo, almeno fino a quando parte la prima votazione e un giurato del gruppo, il numero 8, vota a favore dell’assoluzione dell’imputato. Non lo fa perché crede pienamente nella sua innocenza, ma perché le prove non gli sembrano poi così schiaccianti da portare una persona alla morte, e l’avvocato difensore alle prime armi non così preparato. È così, solo per il coraggio di uno di loro di esprimere la propria opinione dissonante, che il dubbio comincia a insinuarsi, giurato dopo giurato, nelle teste di tutti. Da questo momento in poi quella che sembrava una verità già accertata oltre ogni ragionevole dubbio diventa una storia ancora tutta da scrivere, con le certezze che si fanno indecisioni e le indecisioni che si fanno totali incertezze, e La parola ai giurati diventa il racconto di come passo dopo passo, analisi dopo analisi, quello che sembra ovvio diventa solo una percezione soggettiva.

Il cielo in una stanza

Può un film realizzato nel 1957 essere ancora considerato e fruito come un’opera viva e attuale? La risposta cambia da pellicola a pellicola, e la mia in questo caso è sì. Al di là di una recitazione diversa da quella alla quale siamo abituati (e che è comunque valsa fior di riconoscimenti a Henry Fonda) e di transizioni che al giorno d’oggi sembrano discutibili almeno tanto quanto quelle dei video con le foto ricordo che ci propinano a caso i nostri iPhone, La parola ai giurati presenta un ritmo, un tema e una trama che sono attuali oggi tanto quanto lo erano più di sessant’anni fa. Elemento caratterizzante e di estrema connessione in questo senso è l’ambientazione, quella stanza in cui i giurati pensano di dover passare solo pochi minuti e nella quale invece si ritrovano chiusi per ore, sentendosi quasi a loro volta prigionieri. Un luogo semplice, scarno, che minuto dopo minuto e ora dopo ora sembra rimpicciolirsi costantemente, stringendo i personaggi in una morsa dalla quale possono liberarsi solo attraverso le proprie scelte. Scelte sulla sorte di qualcuno che non è lì, e che dipende completamente dalla loro volontà: optare per la propria veloce libertà significa destinare un giovane a condanna certa senza nemmeno rifletterci su, mentre dare spazio al dubbio significa aprirsi alla possibilità che quella di giurato non sia una funzione poi così breve e indolore.

Entrati in quella stanza con un tavolo, delle sedie e poco più, i dodici giurati si caricano sulle spalle il peso del destino di una vita senza nemmeno rendersi conto dell’importanza che questo ha per l’imputato, né della responsabilità che da tutto ciò deriva. Cosa, questa, testimoniata dal fatto che tutto ciò che ognuno di loro ha da fare al di fuori di quelle quattro mura sembra più importante della vita dell’individuo che devono decidere se condannare o assolvere. Quanto è facile dimenticare la propria responsabilità, così presi a dare importanza a cose che in realtà non ne hanno una – o per lo meno che non ne hanno in relazione a ciò che c’è in ballo? Molto, troppo. E quanto è giusto giudicare le storie degli altri sulla base del proprio vissuto, senza pensare al fatto che ogni storia è a sé così come ogni umana reazione? A questa domanda non rispondo, perché per quanto mi sforzi di pensare che sarei capace di fare altrimenti, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Uno è tanti

Se il giurato numero 8, colui che per primo alza la mano in un momento diverso da quello scelto da tutti gli altri, avesse ceduto alla pressione di quella che Elisabeth Noelle-Neumann chiamava Spirale del silenzio e avesse deciso di adeguarsi al resto dei giurati, l’imputato non sarebbe semplicemente stato condannato a morte: sarebbe morto a causa di una decisione presa con la stessa leggerezza con la quale scegliamo il gusto di pizza da ordinare a cena. Non starò qui a dire se la condanna avviene o meno, perché per quanto voci di corridoio mormorino che mi piaccia fare spoiler, sono convinta che il reato di spoileraggio non vada in prescrizione nemmeno dopo 60 anni. Ma il fatto è che in realtà la decisione finale non ha nemmeno troppa importanza: che l’imputato sia condannato o meno, addirittura che sia colpevole o innocente, ciò che conta è che le sue sorti vengono messe nelle mani di persone per le quali una partita di football è più importante della discussione su una vita. Ma basta poco, basta un dito alzato al momento giusto, per poter ribaltare un destino che sembra già scritto.

E allora La parola ai giurati, che la nostra amata Berlinale ha a suo tempo premiato, continua a ricordarci a distanza di quella che è praticamente una vita quanto sia grande la responsabilità personale, civile e sociale che ognuno di noi porta con sé nella vita quotidiana. Vero è che non tutti i giorni ci capita di essere l’Imperatore romano che solo alzando un pollice poteva decretare la fine di una vita, ma altrettanto vero è che qualsiasi nostra decisione – dal prodotto che prendiamo dallo scaffale al supermercato al programma che guardiamo in tv, dall’opinione che manifestiamo sui social alla possibilità di manifestare concretamente in strada per ciò in cui crediamo – ha il suo peso. Un peso che, oggi come nel 1957, va riconosciuto e ponderato con attenzione. Un peso che, oggi più che mai anche se il lungimirante Internationale Filmfestspiele Berlin se ne è accorto con largo anticipo, è condiviso.

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