Diari di Berlino.
Capitolo 1
Dodici anni fa, quando per la prima volta BILLY è venuta Berlino, di notte, mentre aspettavamo l’autobus per tornare a Friedrichshain, guardando il termometro digitale abbiamo visto che segnava -16°.
Apparentemente è un aneddoto che sembra non c’entrare nulla con questa 74a edizione del più interessante tra i principali festival di cinema europei, e invece non è così.
Sappiamo che Berlino — come il suo filmfestspiele — è una città in perenne movimento, difficilmente uguale a se stessa da un anno all’altro, policentrica e fluida. Non a caso infatti tanti dei cantieri, tanti dei baustelle che l’anno scorso punteggiavano parte dei luoghi (non solo) della Berlinale, oggi sono infine risolti e hanno lasciato posto a un panorama realmente differente, a tratti persino irriconoscibile, spostandosi in altre coordinate che nel 2025 saranno di nuovo diverse. Berlino da sempre ci da questa sensazione, qualcosa che cambia in continuazione ma che resta sempre segnato da un’identità unica e inconfondibile.
E così sono tanti altri gli elementi di apparente disordine e continuità discutibile rispetto al consueto: la temperatura minima prevista per questi giorni sarà di un grado sopra lo zero e questo ha già portato la metà più anziana della delegazione di BILLY a consumare, in un solo pomeriggio, almeno dodici pacchetti di fazzoletti. Ancora: il press center è ancora più scarno ed essenziale rispetto all’anno scorso, pur essendo nello stesso luogo e occupando i medesimi spazi; con nostro sommo disdoro anche quest’anno non sono previsti regali per la stampa, neppure le ambitissime shopper che segnalavano lo status di chi le portava in maniera inequivocabile e giustamente arrogante, mentre lo spazio per il merchandising è costretto in un bancone da fiera dentro il Place, lo shopping center sempre più ricco e sfarzoso che si alza per tre piani di fianco al Palast, e finirà tutto il materiale entro due giorni al massimo.
Questo è vero nonostante alcune cose siano invece restate immutabili, come ad esempio quello che era e continua a essere il tempio berlinese del cinema durante i giorni del festival, ossia il Berlinale Palast, rimasto identico nel suo ergersi come esito ovvio e finale di una Marlene Dietrich Strasse sempre bellissima. Bellissima sì, ma che, al contrario del Palast, quest’anno è non solo completamente priva di luminarie e orpelli scenici, ma talmente transennata che per attraversala è necessario percorrerla tutta in una direzione e poi tornare indietro da quella opposta.
Molte delle necessità e la loro risoluzione si sono spostate e sono confermate online, è vero, ma non è questo il punto — al netto di un sistema di acquisti e prenotazione dei biglietti ancora e di nuovo forse un po’ poco immediato. Il punto è che sembra che la Berlinale abbia voluto ulteriormente rendersi essenziale, evitare cosmesi che possano distrarre dai prodotti cinematografici proposti, centrare il suo stesso senso nonché il suo sguardo quasi unicamente sui film, per altro articolati in sezioni raramente così ricche, stratificate e poco indulgenti rispetto al mainstream.
Una sensazione confermata anche, per dire, dalla festa organizzata alla Kuehlhaus dal Padiglione Italiano, quest’anno protagonista del Focus dell’European Film Market, il cruciale mercato cinematografico della Berlinale che l’anno scorso ha contato più di 11.500 presenze e una cosa come 600 compagnie espositrici. Una festa che ci ha svelato due cose: la prima, forse inaspettata, è che l’Italia è considerata, dalla Berlinale, festival ancora radicale e coraggioso, un luogo, a livello cinematografico, «eccitante, tradizionale, moderno e diversificato», per citare l’amministratore delegato dell’EFM, Dennis Ruh. La seconda è che delle feste, di questo tipo di feste, a Berlino, nonostante le tante e meravigliose case di produzioni presenti, sembra interessare davvero poco, sarà per il tipico champagne italiano offerto o forse per la scelta di “Svalutation” come resistibile pezzo di apertura delle danze.
Ma mentre torniamo a casa, Berlino è come sempre straziante e meravigliosa, e riflettiamo sul fatto che tutto questo però non basta, perché l’elemento che ci risulta subito centrale, di questa edizione ancora più che delle precedenti, è la partecipazione come urgenza di comprensione e di dialogo: le proiezioni aperte (ma anche quelle riservate a stampa e industry) — numerose e diffuse, sparse e frequenti — vanno tutte quasi sistematicamente sold out in poche decine di minuti. Senza tappeti rossi, senza glamour, senza ammennicoli, ma dentro il cinema.
Capitolo 2
Il quartier generale della nostra rivista preferita è ovviamente a Berlino Est — in una zona indecisa in cui in questi anni abbiamo sostato poco, posta al confine tra Mitte, Friedrichshain e Kreuzberg — e alberga in un monolocale, piccolo ma luminosissimo, dentro un palazzo della DDR splendidamente ristrutturato e, forse per contrasto forse per metafora, reso tanto estremamente trasparente all’interno, con vetrate enormi che affacciano su un cortile post-industriale, quanto impenetrabile, materico e pesante all’esterno. Da una parte vediamo la torre della televisione di Alexanderplatz Platz, dall’altra sentiamo il richiamo della Torre PwC di Potsdamer Platz. E proprio attorno a Potsdamer Platz, intanto, il CinemaxX, la multisala che accoglie un notevole numero di proiezioni riservate alla stampa, si è rifatto il trucco, gettando nello scompiglio frotte di giornalist3 a cui è stato spostato il consueto ingresso, seminando un panico tangibile.
È proprio qui che, accomodati sulle poltroncine della sala 3 (in realtà si tratta più di divani che di poltroncine, tanto comodi quanto insidiosi per la veglia), mentre la salute della metà più anziana della delegazione di BILLY peggiora vistosamente, assistiamo al primo film di questa poco sfarzosa, ma sostanziale, Berlinale. Horse du Temps è il gradito ritorno al cinema, dopo cinque anni, del sessantenne Olivier Assayas, un maestro che ha già collezionato diversi premi prestigiosi in passato. Il film è delicato e discreto, mimetico e leggero nel senso migliore del termine, e, ambientato durante il primo lockdown, è intessuto di memoria, parole, relazioni, rancori, idiosincrasie, rapporti, amori, paure, desideri e ancora parole, che allagano, addolciscono, esasperano, «com’è normale che sia», la casa d’infanzia di due fratelli — un regista e un giornalista radiofonico — che vi si sono confinati con le loro nuove compagne.
La visione di questo film così cortese e riservato, pur essendo percorso e scosso da brividi di disordine riconoscibile, si accompagna in maniera apparentemente dissonante alla seconda proiezione a cui assistiamo (al Cubix di Alexander Platz, invariato nella sua magnificenza est-europea e brutale, per quanto rivista), il primo della lunga serie di documentari che intendiamo vedere, collocato saggiamente nell’amatissima sezione Panorama. Si tratta di My Stolen Planet, il diario personale e in prima persona di Farahnaz Sharifi, una film maker iraniana al suo esordio nel cinema del reale di lunga durata. Un documentario sconvolgente e intimo, interamente realizzato con materiali d’archivio girati dalla stessa regista e anch’esso intrecciato di lacerti provenienti da un passato più o meno recente, intessuto da vite tenute nascoste, da assenze e presenze che si sciolgono e si condensano in relazione alla praticabilità di una volontà di libertà, allagato di una morte coraggiosa e disperata, per desiderio di vita. Farah ci racconta che è costretta a migrare su un suo pianeta privato per essere libera, raccoglie memorie altrui e le unisce alle sue per provare a immaginare e redere possibile un Iran diverso.
Quello che ci piace leggere di comune, tra queste due opere cosi lontane e distanti, è il rapporto simile che intrattengono con il “fuori”, un fuori che, in questo caso, non è un’alterità verso cui tendere, quanto piuttosto qualcosa di già conosciuto e ferocemente distruttivo, come una malattia letale o un regime liberticida. Resta quindi il “dentro”, il dentro di una casa, il dentro di una memoria, il dentro di una resistenza al presente che è sì privata ma che prova a farsi contagio, raccontandosi all’esterno; resta il “dentro” come unica possibilità di sopravvivenza, come luogo di salvezza, come laboratorio del possibile, come fondamenta per costruire un altro futuro.
Capitolo 3
Il lunedì mattina alla Berlinale non è diverso dai lunedì in giro per il mondo. Si fatica a svegliarsi, soprattutto se si è trascorsa la serata nel vivace disagio di Kreuzberg a mangiare barbecue coreano, fa freddo, ancora cinque minuti e allora si finisce per rischiare di perdere il primo film della mattina e tocca correre come se non ci fosse un domani, sfidando la pioggia, l’aria gelida di Berlino che ti si attacca alle ossa e la U2 diretta, in maniera ingannevole, verso (live in) Pankow. Ma ne vale la pena, perché gli steward in rigorosa sciarpa rossa e auricolare d’ordinanza fanno il tifo per i ritardatari che si affannano lungo Alt Potsdamer Strasse, e perché il Palast è un posto caldo e sufficientemente scomodo per non ricadere nel sonno dei giusti che tanto precipitosamente si è dovuto abbandonare.
E ne vale la pena anche perché Langue Etrangere di Claire Burger, una co-produzione franco-tedesca in concorso, è un film molto intenso. Due giovani attrici straordinarie — che sottolineano, se ce ne fosse bisogno, lo stato drammatico in cui versa il cinema italiano a livello di recitazione — al servizio di una storia dalla traiettoria ambigua, apparentemente incerta, ma in realtà talmente in atto da sembrare irrisolta. Un film in linea con l’impressione di cinema che stiamo ricavando dalla visione dei prodotti in concorso, che s’interroga sulla memoria, sul passato (politico e personale, nazionale e individuale), sulle responsabilità e, nella dinamica ricorrente tra interno ed esterno, tra mondo dentro e mondo fuori, sembra suggerirci che chi sceglie di attraversare l’estraneità lo fa perché sente l’urgenza del cambiamento, rispetto a un esistente irricevibile, e ha il coraggio di un conflitto — anche istintivo anche inventato o immaginario — che, seppur destinato a essere represso, passa attraverso ciò che è straniero, come può esserlo una lingua.
Non si sposta di tanto da queste coordinate neanche l’importante documentario, per la verità eccessivamente lungo e a tratti in effetti noioso, che un emozionato Carlo Chatrian («oggi l’emozione è ovunque») presenta davanti al sipario rosso dell’Haus der Berliner, quasi nel profondo ovest dell’ancora piovosa capitale tedesca. Des Leere Grab, la tomba vuota, è cinema del reale persino classico, se vogliamo, ma capitale per rilevanza rispetto alle possibilità della disciplina documentaristica stessa. Di nuovo memoria, di nuovo passato, di nuovo responsabilità e ottimismo della volontà, di nuovo perimetri percorsi e addirittura la Storia nella storia di alcune famiglie tanzanesi che cercano di recuperare i resti dei loro avi massacrati dai tedeschi a inizio ‘900 durante il loro periodo coloniale e conservati in Germania, per riportarli a casa, dentro, in Africa.
Ciò che colpisce di questo film è in realtà la capacità di un popolo di provare a elaborare le proprie responsabilità, cosa che accade anche nella pellicola di Burger ed eventualità che nel nostro paese, così lassista e assolutorio, così cialtrone nell’affrontare la propria storia, non è neanche in fase embrionale, nonostante gli sforzi di alcuni, anche solo per ripensare la nostra infame toponomastica. Mi riferisco al rimosso della nostra genocidiaria storia coloniale e mi riferisco al fatto che abbiamo visto The Empty Grave proprio il 19 febbraio (e ci piace pensare che non sia un caso), ossia proprio il giorno in cui ricorre l’anniversario della strage di Addis Abeba, quando, nel 1937, civili italiani, militari e squadre fasciste, con il consueto coraggio che contraddistingueva queste categorie (posto che fossero diverse), trucidarono tra le 1.400 e le 30.000 persone inermi, come rappresaglia per l’attentato a cui era purtroppo scampato qualche giorno prima il macellaio Rodolfo Graziani, allora Generale e Viceré d’Etiopia e oggi titolare di diverse strade in giro per questo paese smemorato e intrinsecamente ancora fascista che si abbevera alle apologie del periodo coloniale come gregge belante, dimenticando, oltre alle nostre atrocità, anche il fatto che in parlamento, dopo le scuse e le ammissioni nel 1998 di Oscar Luigi Scalfaro, allora Presidente della Repubblica, giace dal 2006 la proposta di legge per fare del 19 febbraio un giorno della memoria per le vittime africane del nostro periodo coloniale. Preferiamo ricordare, male, altre cose.
Non suoni come una riflessione estemporanea, estranea al cinema e alla Berlinale. Si tratta di racconti e di scelte, di vie che cambiano di nome e di documentari che tracciano un confine tra ciò che è stato e ciò che è comodo ascoltare, di prodotti anche imperfetti ma che vengono presentati dal direttore del Festival, di film che ristabiliscono la correttezza delle storie e della Storia.
Nel frattempo in sala stampa è tornata la calma, nonostante il freddo nel foyer del Palast ci costringa a scrivere con giacca e sciarpa addosso, nonostante la caffetteria del press center chiuda troppo presto e nonostante i continui sold out provochino crisi nervose in più di una persona. Liet3 di tutto questo — tutte cose che per altro saranno oggetto di approfondimento nella prossima puntata — ci dirigiamo di nuovo a Kreuzberg, mentre cala, secca, la notte berlinese, i lampioni si rivelano timidi e il cinema si domanda se sta morendo o se si tratta solo di un temporaneo calo di pressione. Domani, forse, Martin Scorsese risponderà a questa domanda sempiterna.
Capitolo 4
Ogni mattina, a Berlino, attorno alle sette e un quarto, chiunque abbia un accredito si sveglia sapendo che i minuti successivi saranno difficili. Ogni mattina, a Berlino, alle sette e trenta precise, la Berlinale apre l’accesso al sito per prenotare i biglietti per i due giorni successivi. A quella stessa ora, chiunque abbia un accredito attende lo scoccare preciso della mezzora per ricaricare come un forsennato la pagina di ingresso, ricevendo come immancabile e costernata risposta che è in coda perché ci sono troppi accessi. All’incirca dieci minuti dopo, l’aria di Berlino è scossa da una quantità mostruosa di imprecazioni e bestemmie per gli altrettanto immancabili e costernati sold out dei film più attesi, e in realtà non solo di quelli. Gira voce che ci siano frotte di non accreditati che passano la loro mattina a rendere più difficile la già precaria esistenza di chiunque abbia un accredito stampa. Ma, comunque sia, verso le 8, a Berlino, ogni mattina chiunque abbia un accredito, di solito dopo aver brevemente pianto, cerca di riaddormentarsi sognando di film che forse non vedrà mai o che vedrà non dove e non quando aveva pianificato di vedere, con la conseguenza di dover rivedere per intero la sua stessa esistenza.
Ovviamente stiamo scherzando, avere un accredito stampa è meraviglioso, anche per le tante proiezioni dedicate (e nonostante la scarsità di gadget in regalo), ma il bello della Berlinale, lo abbiamo già detto, è sia la straordinaria partecipazione di pubblico che è in grado di raccogliere, sia la ricchezza disumana del programma, che rende davvero complesso riuscire a conciliare tutto.
Quindi finisce che le proiezioni per la stampa hanno una singolare caratteristica, la cui motivazione è ancora oggetto di studio: sembrano un lazzaretto, con un perenne sottofondo di tosse, starnuti e nasi che colano, tanto da rischiare di scatenare risse con i pochi sani che le frequentano. Forse quella della critica cinematografica è una categoria cagionevole di suo, forse s’invecchia precocemente, forse è una strategia dei poteri forti, forse ci sono degli infiltrati provocatori, ma gli accreditati stampa contribuiscono fortemente al raggiungimento del picco influenzale di fine febbraio.
Consci di ciò, riusciamo inaspettatamente a prenotare non unicamente film che non volevamo vedere, per i prossimi, ultimi due giorni a Berlino, ma anche prodotti a cui puntavamo dall’inizio, forse aiutati dalla cena consumata la sera prima presso “La cantina della lunga marcia”, un ristorante cinese che ridefinisce il concetto stesso di ristorante cinese, in piacevole compagnia di producer e distributrici davvero molto simpatici, ché è bello scoprire che non tutti quelli che vanno al mercato cinematografico europeo parlano del loro lavoro urlando e facendo name dropping.
Ecco allora che al Berlinale Palast ci accomodiamo — si fa per dire — per assistere all’attesa proiezione della coproduzione germanofona “The Devil’s Bath” (Des Teufels Bad) di Veronika Franz e Severin Fiala, di cui non esiste materiale ufficiale in alcuna cartella stampa. Dal momento però che c’entra Ulrich Seidl, che produce, non ci aspettiamo qualcosa di particolarmente leggero, e infatti da lì a poco ci si spalancano davanti due ore di cinema perturbante, interrotte solo da un accenno di rissa tra un tossitore seriale e uno dei rari giornalisti privi di sintomi influenzali. Sorvolando su alcuni squallidi compiacimenti e ostentazioni sordide un po’ di maniera, il film, ambientato nell’Austria settentrionale del 1750 e bastato su dati storici reali, è uno specchio deformante che riflette, nuovamente, il problema della relazione con il passato e con l’estraneo, della memoria di ciò che si è stati e che si è fatto, e il desiderio di uscire dal mondo, dal mondo là fuori che risulta ancora un’ipotesi impraticabile.
La devastante sequenza finale, che parte dalla confessione in camera di una straziante Anja Plaschg (Agnes, nel film, la protagonista), però, sembra suggerirci una possibilità, per quanto fraintesa, di assoluzione: l’amore. Che si fa morte e giudizio e colpa, ossia smette di essere amore, ma sembra sottintendere che, laddove alberga l’amore vero, nulla può esserci di malvagio. Ma esiste sul serio, questo amore?, sembrano chiedersi Franz e Fiala, in questo horror che — insieme ad altri non dissimili, ambientati in periodi e terre non distanti — ci fa pensare che certi luoghi, in certi periodi, in certe comunità, altro non fossero che un inferno, nonostante o forse proprio per il cristianesimo imperante e superstizioso che vi allignava.
Ma l’amore, e il coraggio di amare come unica possibilità di connessione tra mondi e persone, per quanto in termini stucchevoli e quasi puramente romantici, sono al centro anche di “Black Tea” del sessantenne mauritano Abderrahmane Sissako, regista già vincitore di un Cesar nel 2015, anch’esso in concorso, ché quest’anno non ce ne perdiamo uno, dei film in concorso, così da poter sbagliare meglio ogni previsione e in maniera ancora più ingiustificata che nel 2023 (e quindi sicuramente “Black Tea” vincerà l’Orso d’Oro). Il film di Sissako ci lascia decisamente interdetti, e non sempre è un bene, in questo caso probabilmente no. Non tanto per la storia interrogativa né per il linguaggio apparentemente datato e scientemente ingenuo, quanto per i momenti quasi “cringe” che sembrano assecondare una lettura edulcorata e quasi apologetica — e quindi priva di ogni reale conflitto — dei desideri e delle pulsioni dell’essere umano, in una dicotomia che non tiene conto del permeabile né dell’irriducibile.
In tal modo, l’opera vanifica qualsiasi tentativo di raggrumare una riflessione sincera che, anche nel caso di questo film, si svolge lungo le stesse coordinate che ci pare di rintracciare in molti dei lavori visti in questa Berlinale: il cinema contemporaneo come dispositivo in atto che rielabora la responsabilità del passato e della memoria, cerca vie per risolvere il disastro dei mondi odierni, prova o rifiuta una mediazione tra ciò che ci tiene al sicuro, per quanto in termini regressivi, e ciò che ci spinge fuori, all’esterno.
In mezzo c’è Martin Scorsese, in una conferenza stampa a cui riusciamo a imbucarci grazie alla metà giovane della delegazione di BILLY che, con un barbatrucco che resterà negli annali, apre la strada verso una sala già gremita ed emozionata. Martin Scorsese, al netto di una inaspettata simpatia, si presta di buon grado alle domande, non sempre centrate, di una stampa in adorazione. E in relazione a quello che ci siamo chiesti andando a cena, ieri, il Maestro è tassativo, anche se non del tutto soddisfacente: «il cinema non sta morendo, si sta solo trasformando, come sempre».
Capitolo 5
Non di solo cinema vive la delegazione di BILLY a Berlino, ma anche di luoghi dell’anima e del corpo, che siano un concerto gratis — come tutti i mercoledì che dio o chi per lui manda in terra — nel foyer della Berliner Philharmonie, insieme a torme di sconosciuti di ogni età, storia e latitudine e che restano in silenzio per quasi cinquanta minuti ascoltando un quartetto d’archi suonare Felix Mendelssohn Bartholdy e Hugo Wolf. Oppure un piatto sudanese con pollo e allumi mangiato in uno degli oramai più vecchi (quasi) street food di Friedrichshain, senza riscaldamento, sì, ma con l’Afri-Cola, una salsa alle noccioline indescrivibile e un cibo pazzesco che aspetti un anno solo per tornare a Berlino ad assaggiarlo di nuovo. O ancora quattro piani di vestiti di seconda mano e vintage, DDR compresa, di fronte a Frankfurter Tor, dove ci si può sentire vecchi e commossi, guardando Karl Marx Alee toccarsi con Warschauer Strasse e srotolarsi fino ad Alexander Platz.
Ma anche di cinema vive la delegazione di BILLY a Berlino, e il cinema, oltre che, ovviamente, di proiezioni, è fatto anche di persone che avresti voglia di ascoltare per ore e che rappresentano dei punti di riferimento in ambito di critica cinematografica, è fatto inoltre di amministratori illuminati che ti fanno rinascere la speranza nel sistema produttivo culturale di questo paese ed è fatto, molto, di produttrici e autrici di talento che rivendicano spazi per troppo tempo negati al genere femminile in un ambito che resta ancora prepotentemente maschile. Così questo mercoledì si apre con un altro film in concorso e un pubblico che, nella proiezione pubblica al Berlinale Palast, occupa tutti i posti disponibili per smentire con entusiasmo i fischi che la stampa — soprattutto quella italiana — aveva invece riservato, nella prima mattina, a “Gloria!”, l’esordio alla regia di Margherita Vicario.
Poco ci interessa che il film di Vicario abbia dei difetti e delle ingenuità, così come riusciamo a farci toccare poco da alcune scelte poco felici in termini attoriali e da alcune ambiguità nella messa scena, a volte debitrice di scelte quasi “sanremesi”. “Gloria!” fa piangere, fa ridere, emoziona, coinvolge, diverte, stuzzica e rivendica con forza una decolonizzazione dalle narrative e dagli sguardi maschili che, per quanto non sempre perfettamente riuscita e a volte forse un po’ patinata, ha un valore profondo ed evidente, almeno per chi è riuscito a emanciparsi dal privilegio di risposte tipo «non tutti gli uomini».
Di più: come spesso accade in questa Berlinale, e come oramai abbiamo sottolineato fin troppe volte, a centrare lo sguardo del film è ancora una volta il passato, la capacità di rielaborarlo e condannarlo, la forza di prendersi e ribaltare la Storia, le favole e le storie che riescono ancora ad appartenere al presente e lo allagano, in quella dialettica di tempi e mondi che a volte si risolve nel conflitto, a volte nella fuga. E in realtà, ci è oramai chiaro — tra l’altro confermato anche dal film che vediamo poco dopo “Gloria!” e poco dopo uno spritz neanche così male — come questo movimento, questa dinamica abbia un perno, un cardine attorno a cui girare che ne detta tempo e visione: il femminile. Perché il femminile è la questione cruciale della contemporaneità, è ciò che sintetizza e riassume ciò che è in atto oggi.
Non a caso — ci piace dire — anche “Vogter”, al momento il nostro film preferito, per quanto conti su una regia maschile ma per fortuna non maschia (per altro del sempre bravo e intenso Gustav Moller), ha al centro la storia di una donna e del suo rapporto con il passato, una storia perpetrata da un confine molto meno permeabile ma molto più concreto tra il dentro e il fuori, quello dei muri di un carcere e della violenza omicida. Un film sporco e fastidioso, compresso di rabbia e dolore, claustrofobico e dilatato, che lascia pochi margini all’umanità, ponendosi però, senza coraggio, senza intenti programmatici, oltre il giudizio.
Alla fine di questa giornata piovosa ci rifugiamo dentro a Manifesto, uno spazio commerciale, attaccato ai divani del CinemaxX, che ospita una quantità notevole di ristoranti “etnici” di discreta qualità, con un greco particolarmente soddisfacente, e con prezzi chiaramente gonfiati in occasione della Berlinale e una fauna di “addetti ai lavori” che alterna stati di crassa euforia a quella classica mestizia da seconda parte di festival che generalmente svanisce nel breve volgere di una birra. Peccato solo che alle 21:20 oltre il 70% dei ristoranti sia chiuso, ché siamo a Mitte e a Mitte si va, giustamente, a letto presto.
Capitolo 6
L’ultimo giorno che la delegazione di BILLY trascorre a Berlino è, ovviamente, un giorno di commiati, pellegrinaggi, lutti, abbracci, saluti, promesse e — va da sé — proiezioni. La Berlinale volge al termine, il numero di giornalisti che si aggirano attorno a Potsdamer è oramai piuttosto esiguo, mentre si rincorrono le prime indiscrezioni sull’Orso d’Oro e nel Press Center all’Hyatt, nonostante i caffè gratis, in diversi dormono sulle ambite poltroncine, aspettando conferenze stampa che non deluderanno.
La delegazione di BILLY, allora, cammina leggera soddisfatta di sé per la penultima proiezione al Berlinale Palast, in occasione di un evento speciale, il ritorno al cinema dopo quattro anni di un regista molto amato, nei suoi episodi più felici, dalla metà anziana della delegazione (che per altro ha finalmente smesso di dormire alle proiezioni troppo comode): Atom Egoyan. L’operazione che l’autore armeno naturalizzato canadese propone con “Seven Veils” è molto particolare, e si salda perfettamente con le pulsioni che hanno innovato questa Berlinale.
Nella storia della regista teatrale Jeanine (interpretata in maniera singhiozzante da Amanda Seyfried), che viene incaricata di rimontare l’opera Salomè di Strauss riprendendo la messa in scena dal suo defunto ex mentore e amante, ci troviamo a indugiare in maniera ossessiva in ricordi oscuri e disturbanti, fino all’incontro con un trauma represso che riaffiora e si sfoga nel presente. Una storia, quella di Jeanine, allagata e invasa dallo sguardo desiderante maschile, che la stessa Jeanine cerca di decolonizzare, scaricando i mostri del passato in una realtà che però esala miasmi mefitici.
Il parallelo tra la storia di Salomé e quella della protagonista, in cui è esplicita e determinante la volontà di quest’ultima di desessualizzare la figura biblica, così tanto manipolata dagli uomini che hanno messo mano al testo, è una vertigine potenziale che però fatica a squilibrare chi guarda. Il limite del film sta infatti forse proprio in un cinismo esasperato, programmatico e di maniera, che non risparmia nessuno e che probabilmente finisce per scaricare il peso sia del passato sia della colpa che chiunque imputa a Jeanine.
Ma ciò che risulta particolarmente affascinante è la simultanea e variegata presenza di diversi strumenti di ripresa e di piani temporali — finzionali e reali — differenti, che permettono oscillazioni e contaminazioni, non solo visuali, molto intriganti e gravide di lacerazioni. Diciamo questo perché a sostenere il film troviamo un altro livello: la produzione della Salomè curata dallo stesso Atom Egoyan per la Canadian Opera Company, messa in scena per la prima volta nel 1996 e da allora riproposta più volte, finanche nel 2023. Sono proprio le immagini di quest’ultima rappresentazione a ibridarsi con quelle del film, attivando prospettive molteplici.
Non solo i filmati di backstage, realizzati da Egoyan con il cellulare, si integrano nella trama, come documentazione e testimonianza, ma la contaminazione tra teatro e cinema coinvolge anche il cast di attori che Jeanine dirige, molti dei quali hanno partecipato alla produzione originale canadese. Jeanine allora diventa, per certi aspetti, Egoyan, e viceversa, costretta sia a riadattare un classico, sia a rielaborare le fratture del passato, come il coraggio dei classici spesso porta a fare.
Alla fine del film è chiaro ancora una volta come il concetto di film bello o brutto, di piaciuto o non piaciuto, sia un modo desueto e inefficace di interrogare l’immagine contemporanea, così pervasiva che — come dice Giulio Sangiorgio — la finzione si è oramai mangiata la realtà, anche quando questa immagine è proposta da un regista attempato come può essere Atom Egoyan. La conferma arriva anche dall’ultimo film che BILLY vedrà alla Berlinale, in un pomeriggio piovoso ma non freddo, in un Palast gremito e commosso.
“Mé el Aïn” (Who Do i Belong To, il titolo internazionale) di Meryam Joobeur è la conclusione che ci meritiamo, ed è forse il nostro film del festival. Ancora una storia di donne, ancora un passato devastante, anche se tanto recente da risultare quasi simultaneo, ancora una colpa irrisolta e violenta, per un film radicale e potente. Perché quando uno dei figli più grandi di Aicha, che vive nel nord isolato della Tunisia con suo marito e il figlio più giovane, torna a casa con una misteriosa moglie incinta, dopo aver scelto l’abbraccio violento della guerra arruolandosi nell’Isis, emerge un’oscurità simbolica che minaccia e comincia a consumare l’intero villaggio, riversando su una collettività che non può avere speranze la disperazione di un tempo e di un mondo interi, quelli in atto oggi.
Ed è l’occidente intero, nonostante sia solo parola all’interno del film, a incombere su queste vite intrappolate, senza che la regista si conceda alcun lassismo rivendicativo, ma racconti, con modalità strazianti, per dirla con le sue stesse parole, «quel processo spaventoso che consiste nel togliere le etichette che formano le fondamenta della nostra identità: quando i costrutti di ciò che crediamo di essere – che si tratti di famiglia, credenze religiose, appartenenza politica, nazionalità – iniziano a sgretolarsi, cosa rimane? Quale essenza resta, quando siamo completamente esposti, senza gli strati dell’identità costruita?».
La sala piange e applaude, applaude e piange, e fuori c’è la città che aspetta il weekend per dare il meglio di sé, mentre ha smesso di piovere e la delegazione di BILLY saluta così questa edizione della Berlinale tanto affascinante e dolente, con una sera mite che ci accompagnerà verso la notte del ritorno e con il cinema a splendere sopra Berlino, come gli angeli invisibili che ci guardano e ascoltano dalla Chiesa della Memoria di Charlottenburg.
Cosa ci resta, una volta casa, lontano, di questa splendida e straziante Berlinale? La sensazione che serpeggia è quella di un’edizione notevolissima, ma che sia tale soprattutto fuori dalla sezione Concorso, laddove nelle sezioni “collaterali” il cinema proposto è particolarmente radicale e non compromissorio. Nella sezione che assegna il premio più ambito, in effetti, sono state davvero poche le folgorazioni immediate e gli innamoramenti scomposti. Ciò non toglie però che la fotografia, in movimento, delle tensioni che attraversano l’odierno è senza dubbio manifesta e interrogante. Come spesso accade, la Berlinale coglie lo spirito del tempo molto più degli altri festival internazionali, che, se è pur vero che si accaparrano di frequente le uscite di maggior richiamo, sono però allo stesso tempo ripiegate su questa rincorsa, a discapito di una proposta in grado di costruire senso, con buona pace degli integralismi cinefili che mal sopportano tanto la grande partecipazione “popolare” alle proiezioni quanto la capacità di gran parte dei film proposti di uscire e scartare di lato — o sopra — rispetto agli schemi precostituiti del “cinema d’autore” contemporaneo, così da rigettare le tratte più onanistiche del piacere festivaliero. Lo conferma un premio tutto sommato forse prevedibile come l’Orso d’Oro a Mati Diop e al suo “Dahomey”, un documentario che, feroce nella sua richiesta di redenzione, difficilmente sarebbe stato in concorso altrove, che conferma la sostanza che abbiamo sentito in questi giorni e che bissa il successo di un altro documentario, “Sur l’Adamant”, che si era aggiudicato il premio più importante nel 2023.