C’è ancora domani – le radici da spezzare
Abbasso i Savoia, Viva la repubblica. Sui muri della Roma post-bellica si invoca il cambiamento. C’è la fila davanti all’alimentari, e mentre gli americani presidiano la strada all’angolo, gli attacchini farciscono i vicoli di manifesti elettorali.
Ci sono gli uomini che hanno combattuto due guerre, avviliti e gretti, stanchi e fragili, abitati da una robustezza solo apparente, da una muscolarità che sentono imperativamente di dover sfogare. E mentre le macerie ingombrano le città, la storia attende di eleggere “i maschi” quali valorosi fautori dell’eroica ricostruzione materiale e politico-spirituale dell’Italia che ci attende.
Ma tra le angosce di quartiere, nei vicoletti, tra le mura domestiche scrostate, ci sono le donne laboriose, vitali e resistenti che Paola Cortellesi stana dai margini della narrazione storica. La figlia (Romana Maggiora Vergano) che ricerca la fuga dall’oppressione femminile nell’amore, l’amica fidata e libera (Emanuela Fanelli) che alterna saggi incoraggiamenti a qualche ribelle boccata di sigaretta, la signora della merceria, fiera e indipendente, la portinaia che intuisce ogni traiettoria del destino dei condomini che incrocia sulle scale, e le donne del rione, che rammendano sotto le finestre, raggomitolate sulle sedie di legno nei cortili, come gatti di quartiere affamati di qualsivoglia avanzo di tragedia da vicinato.
Sono le donne che, a bocca chiusa hanno imparato a farsi sentire, che pazienti e schiacciate hanno saputo resistere, che da quelle sedie in legno si sono alzate, per affollare le strade, le urne, la vita.
C’è ancora domani è un film bizzarro, drammatico pur suggerendo un sorriso, leggero pur raccomandando un’urgente riflessione. Un film a tratti sorprendente, a tratti fin troppo didascalico, un po’ naif e un po’ favola moderna, che ha saputo trascinare in sala anche il pubblico oramai disabituato alle poltroncine rosse.
Grazie al passaparola, perfino un esordio alla regia, per giunta in bianco e nero, macchiato irrimediabilmente da più d’uno scivolone di sceneggiatura (il più fatale, il piano esplosivo messo a punto con la complicità del militare americano al quale la protagonista non era riuscita a rivelare nemmeno il proprio nome a causa della distanza linguistica), ha conquistato il pubblico, parlando direttamente alle donne, a cui il film è dedicato e rivolto. Un cinema italiano che, grazie a C’è ancora domani, torna a essere partecipativo e partecipato, raccontando, seppur talvolta con colpevole semplicismo, un femminile, silenzioso e faticoso, deprivato e spremuto, ma mai vinto.
Quella di Delia (Paola Cortellesi) è una vita combattuta con indosso abiti rattoppati e molti lividi, a testa alta e bocca serrata. Spesa a racimolare qualche soldo con lavoretti saltuari, abituandosi ad essere meno remunerata dei colleghi uomini. Sopportata tra le mura di casa, in cui ad attenderla ogni giorno vi è la violenza dell’ottuso marito (Valerio Mastandrea) e la disapprovazione dei figli, che l’accusano di silente connivenza, di meritata subalternità.
Cortellesi, mediante la sua immagine conosciuta e riconoscibile, stabilisce un dialogo fitto e diretto con lo spettatore, e grazie a primi piani insistiti, alle battute in romanesco e ai tempi da sketch, la sua Delia, donna nell’Italia del 1946, annulla le distanze della storia e divine emblema dell’ in-subordinazione politica e sociale delle donne di ieri e di oggi.
C’è ancora domani sfoglia l’album dei ricordi del cinema italiano e richiama precise istantanee del neorealismo (le donne traboccanti di rabbia in Roma città aperta, le lavoratrici ammonticchiate sulla scale in Roma ore 11, l’espressività di Anna Magnani, la risolutezza con cui si sacrificano le lenzuola in Ladri di biciclette). Il film riesce in questo modo a rispondere a un bisogno collettivo di riconoscersi in un passato di simboli, immagini e senso, comuni. Ma è il presente, con il suo vantaggio sul punto d’osservazione retrospettiva, a dettare le regole della narrazione.
La musical-violenza domestica in cui i lividi si imprimono a passi di tango, la colonna sonora che accompagna Delia nell’ipotesi della fuga tra le note di B.O.B. (Bombs Over Baghdad) degli Outkast, la macchina da presa che danza, in un girotondo favoleggiante, attorno a Delia e Nino (Vinicio Marchioni) mentre Fabio Concato canta M’innamoro davvero. Sono slanci visionari, imprevisti che ostacolano il ripetersi del passato. Ciò che si intende raccontare, tramite questi espedienti disorientanti, e non sempre riuscitissimi in termini di coerenza narrativa, è il presente, ancora così traboccante di ingiustizia di genere.
In C’è ancora domani riaffiorano le radici culturali in cui riconoscersi, quelle del cinema neorealista e di denuncia, e le radici da amputare definitivamente, quelle della violenza patriarcale.
Cortellesi ha il grande merito di proporre un film che ci libera dall’imposizione di ri-pensare il passato obnubilati da riconoscenza e nostalgia. In passato accadevano cose ben peggiori, e molte di esse non hanno mai smesso di accadere, e questo proprio a causa della radici culturali che non abbiamo saputo troncare.
C’è ancora domani è un’opera importante ed efficace, ma a tratti retorica e conciliante. Nel film passato e presente si passano di mano continuamente la staffetta della narrazione, creando un corto circuito di senso.
La gabbia esistenziale in cui si trova Delia viene scardinata dal suffragio universale, tematica che il film riserva gelosamente per il suo finale, senza mai anticipare il ruolo che il diritto di voto potrebbe avere per la vita della protagonista: un plot twist poetico, suggestivo, ma che non si è mai affacciato, nemmeno velatamente, tra le pieghe narrative.
Colpisce come la scelta di fare delle elezioni del 1946, le prime a cui le donne poterono partecipare, la concreta scintilla di ribellione di Delia risulti in realtà una scelta politicamente non radicale. Il voto, non essendo mai stato narrativamente considerato tra le ipotesi a cui Delia intende affidarsi, e ponendosi, purtroppo, lontano dal nostro presente, in quanto considerato oggi una conquista ormai inefficace, convoca in giudizio la Storia senza passare al reale stato d’accusa che meriterebbe.
Il diritto al voto non è bastato a liberarci dall’oppressione del patriarcato.
Ma C’è ancora domani, con il suo microcosmo di maschere e contraddizioni, sa suggerire, nonostante le bocche concilianti che restano serrate sul finale, che una risposta politica, di classe, e di genere, sia ancora possibile, rintracciabile in quella sorellanza e complicità che spinge la figlia Marcella a sostenere la nuova consapevolezza della madre Delia. In quella scheda elettorale depositata nelle mani della madre, c’è tutta la forza politica di chi avverte con urgenza la necessità del cambiamento. Ed è questo improrogabile bisogno che ci spinge a perdonare a questo film ogni incoerenza ed ogni pezza causale di sceneggiatura.